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Articles by Gabrielis Bedris

Mese

giugno 2015

L’uomo che intravide nel futuro

I decenni successivi che avevano visto la collaborazione tra Mikhail Gorbachev e Ronald Reagan per porre fine alla guerra fredda, sono molto cambiati: la scienza e la tecnologia hanno rimodellato la comunicazione globale, la finanza e la cultura; il terrorismo e l’estremismo violento minacciano la stabilità globale, mentre i cambiamenti climatici minacciano il pianeta stesso; ma un truce elemento dell’ordine della vecchia guerra rimane una costante: l’umanità possiede ancora le conoscenze e gli strumenti per auto-distruggersi con le armi nucleari, una capacità che è sempre più al di fuori del costante controllo delle due alleanze impegnate a mantenere le versioni dello status quo. Come si dovrebbero comportare i pensatori e i politici odierni per affrontare le minacce nucleari attuali e future? Scegliendo come guida uno dei giganti dell’epoca precedente: Andrej Sacharov, un fisico nucleare russo che era in prima linea nello sforzo per costruire le armi più distruttive della storia, ma alla fine ne ha capito i pericoli e ha iniziato una campagna per eliminarle. I suoi crescenti conflitti con le autorità sovietiche, hanno reso la sua immagine a simbolo globale del dissenso politico e del movimento dei diritti umani, tanto che, per il suo attivismo e coraggio, gli è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace nel 1975. La comunità scientifica ha un ruolo di primo piano da svolgere nel cercare di mitigare i pericoli che i progressi scientifici spesso portano con loro benefici; ma non bastano le mere avvertenze, come illustra il viaggio di Sakharov da eroe sovietico a inflessibile dissidente, i consigli devono essere informati e supportati da attivismo politico, esempio morale e strategia pratica.
Al momento della sua morte, nel 1989, Sakharov aveva dimostrato il suo indomito coraggio nel parlare apertamente e nel cercare la verità, anche a costo della propria libertà. La sua insistenza sul potere della comunicazione è una parte di ciò che rende oggi rilevante il suo attivismo: secondo lui, solo progredendo nella creazione di società democratiche aperte, con la libertà d’informazione, di coscienza e di espressione, si può evitare la guerra nucleare, che è il maggior pericolo del mondo moderno. Spogliato dei suoi onori e costretto al confino nel tentativo di farlo tacere, Sakharov continuò a scrivere senza mai perdere la speranza; la sua resistenza alla persecuzione ha ispirato i ribelli politici di tutto il mondo, mentre il suo esempio ha emulatori anche oggi.
Per il giovane Sakharov, come per la maggior parte dei cittadini sovietici, la seconda guerra mondiale fu una elementare lotta per la sopravvivenza. Il senso di lotta eroica e sacrificio collettivo sono stati i temi ricorrenti del pensiero di Sakharov, come ha dato un fondamentale contributo nel dopoguerra per comprendere la fusione nucleare e le sue applicazioni sia per l’uso civile che militare. La sua rabbia per i crimini di Stalin era subordinata a un senso nazionale: nei tempi difficili la sofferenza e il sacrificio sono delle risposte necessarie. Dal punto di vista applicativo lui vedeva il suo lavoro sulla bomba all’idrogeno come necessario all’Unione Sovietica per tenere il passo con il suo rivale: gli Stati Uniti. Come ha fatto notare: “Quello che era più importante per me in quel momento … era la convinzione che il nostro lavoro fosse essenziale …. Ho capito, naturalmente, la terrificante natura disumana delle armi che stavamo costruendo; ma anche la guerra finita di recente era stata un esercizio di barbarie; e … mi sono considerato come un soldato in questa nuova guerra scientifica”.
Sacharov non ha partecipato al programma dello sviluppo della prima bomba atomica sovietica, testata con successo nel 1949; ma è stato parte integrante nello sviluppo della sua succeditrice che era ancora più devastante, perché percepiva che aiutare i sovietici a raggiungere la parità nucleare, a sua volta avrebbe aperto la strada per un controllo nucleare, quindi favoriva ad invertire la corsa agli armamenti. Facendo riferimento al lavoro che gli scienziati sovietici stavano facendo nel 1950, Sakharov ha ricordato durante la sua prima visita negli Stati Uniti nel 1988 che “…lo stesso tipo di lavoro che è in corso qui. Gli scienziati americani … sono guidati dalle stesse sensazioni che questo lavoro sia di vitale importanza per gli interessi del paese …. Non sapremo mai se sarà proprio vero che il nostro lavoro contribuirà al mantenimento della pace nel mondo per un certo periodo di tempo, ma almeno al momento in cui noi stavamo operando, eravamo convinti che fosse così”.
Il viaggio di Sacharov nel mondo del dissenso non era unico, molti altri scienziati nucleari erano arrivati a capire i terribili rischi che creava il loro lavoro e cercavano di mitigarlo. Dopo il test sovietico, Washington era dibattuta se sviluppare e testare un’arma ancora più devastante, un dispositivo termonucleare a due stadi, diventata nota come la super o bomba all’idrogeno. Due dei giganti scientifici dello sforzo nucleare americano, Enrico Fermi e I.I. Rabi, hanno scritto in un addendum personale: “E’ chiaro che l’uso di una tale arma non può essere giustificata per nessun motivo etico, perché ogni essere umano ha una certa individualità e dignità anche se è residente in un paese nemico”; ma il presidente Harry Truman, preoccupato del mantenimento del vantaggio degli Stati Uniti, ha ordinato il proseguo del programma.
Mano a mano che l’Unione Sovietica si avvicinava alla parità tecnica nucleare americana, tuttavia, Sakharov scopriva che il suo governo respingeva la consulenza scientifica per temperare il suo programma onde evitare i danni alla salute umana e all’ambiente. Sakharov persisteva nell’elaborazione di una dettagliata proposta per riorganizzare il programma nucleare sovietico senza prove atmosferiche; ma il leader sovietico Nikita Khrushchev non ne era convinto.
Alla fine del 1958, tuttavia, l’Unione Sovietica si unì agli Stati Uniti e al Regno Unito in una moratoria di test, finita dopo tre anni. Quando Sacharov ricevette la notizia che nel 1961 il governo sovietico aveva intenzione di rinnovare i test, ha scritto una lettera a Krusciov, opponendosi a un tale passo. In un rifiuto arrabbiato, il leader sovietico gli ha risposto: “lasciaci la politica: siamo degli specialisti. Fate le vostre bombe e provatele, non interferiranno con voi; noi vi aiuteremo. Ma ricordate, dobbiamo condurre le nostre politiche da una posizione di forza”. Sakharov aveva capito il desiderio di recuperare; ma cercava di convincere i leader sovietici ad accettare la proposta americana di vietare tutte le prove esplosive fuori terra. Questa presa di posizione ha contribuito nel 1963 alla stipula del trattato Ban Treaty (LTBT) che vieta i test nucleari di armi “o qualsiasi altra esplosione nucleare” nell’atmosfera, nello spazio esterno e sotto l’acqua; un passo fondamentale nel contenere la corsa agli armamenti.
La continua insistenza di Mosca sul voler continuare le prove atmosferiche anche dopo l’entrata in vigore dell’LTBT, contribuì alla rottura definitiva di Sacharov con il Cremlino. In quel periodo divenne sempre più sensibile ai temi dei diritti umani e alla libertà di espressione, emise degli appelli pubblici nel 1966 per la liberazione delle vittime della repressione che venivano incarcerati nei gulag e negli ospedali psichiatrici. Il Cremlino gli ha risposto togliendolo dal programma nucleare nel 1968 e, in definitiva, dopo le sue proteste contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan, lo esiliò nel 1980 nella città allora chiusa, di Gorki (ora Nizhny Novgorod).
Nel 1981, nel corso di un periodo di tensione nei rapporti tra superpotenze, ha rilasciato delle dichiarazioni ribadendo il suo impegno per “colloqui di disarmo, che offrono un raggio di speranza nel mondo oscuro della follia nucleare suicida …. Nonostante tutto quello che è successo, mi sembra che le questioni di guerra e pace e il disarmo siano così cruciali che devono ricevere una priorità assoluta, anche nelle circostanze più difficili”. Ha poi continuato a sottolineare la necessità di società aperte e democratiche con piene libertà civili, sostenendo le sue richieste con proteste e scioperi della fame.
Il suo amico e collega dissidente Lev Kopelev, ha scritto di come Sacharov avesse preso a cuore l’oppressione degli altri, così come la sua: “Non so se riesco a spiegarlo, l’anima di Sakharov soffre per ogni uomo sofferente”. Quando le prospettive di riforma politica erano fioche, Sakharov scrisse: “C’è la necessità di creare ideali, anche quando non è possibile vedere qualsiasi percorso attraverso il quale ci sia la loro realizzazione, perché se non ci sono ideali, allora non ci può essere speranza e poi si potrebbe cadere completamente nel buio, in un vicolo cieco senza speranza”.
L’urgenza di rafforzare e proteggere la libertà umana non è diminuita nel mondo di oggi. La deterrenza nucleare, sulla base dei vasti arsenali di armi inutilizzabili, continua a rappresentare un pericolo esistenziale, anche se la sua utilità può essere in procinto di essere minata dalla proliferazione. Durante la Guerra Fredda, si era riconosciuto che uno scambio nucleare tra le superpotenze su vasta scala avrebbe causato centinaia di milioni di vittime e, forse la fine della civiltà moderna; si potrebbe anche ad arrivare ad un “inverno nucleare”, un raffreddamento globale sostenuto e causato dalla grande quantità di fuliggine che ondeggia nell’atmosfera dopo l’esplosione. La nuova ricerca suggerisce che i terribili risultati possono anche essere provocati da una limitata guerra regionale. Sono necessarie ulteriori ricerche, ma le implicazioni sono chiare: i pericoli dell’era nucleare persistono e possono essere ancora più grandi di prima, sono necessari dei rinnovati sforzi per creare le condizioni di fiducia e di trasparenza tra gli Stati al fine di rendere possibile un mondo non nucleare.
Continuano a verificarsi inoltre delle nuove rivoluzioni scientifiche, comparabili a quelle nucleari, come quelle biologiche. Nel corso dell’ultima generazione, i progressi realizzati applicando la tecnologia informatica avanzata alla genetica e ad altre aree, hanno dato all’umanità il potere, non solo di decodificare i misteri della vita, ma di creare nuovi tipi di vita su richiesta. Questi progressi possono portare ad armi vitali per le lotte contro le malattie, la fame e l’inquinamento, ma potrebbero anche essere armi da utilizzare contro gli umani stessi, con un effetto terrificante. Ora come allora, la comunità scientifica deve affrontare decisioni difficili su quali tipi di regolamenti mettere il proprio lavoro di ricerca e di sviluppo e far conoscere apertamente le conclusioni.
Sakharov ha avuto anche la lungimiranza d’immaginare, quello che ha definito un sistema informativo universale, cioè un meccanismo per archiviare e recuperare tutta la conoscenza umana, che per molti versi prefigurava Internet (UIS). Ha predetto che lo sviluppo di tale tecnologia sarebbe sia liberatoria che dirompente, sia per gli individui che per le società e i governi: “Anche la realizzazione parziale della UIS inciderà profondamente su ogni persona, le sue attività per il tempo libero, il suo sviluppo intellettuale e artistico. A differenza della televisione … la UIS darà ad ogni persona la massima libertà di scelta e richiederà dell’attività individuale; ma il vero ruolo storico dell’UIS sarà quello d’abbattere le barriere nello scambio di informazioni tra i paesi e le persone”.
Guardando al futuro, nel 1974, Sakharov aveva espresso il suo ottimismo che “l’umanità troverà una soluzione al complesso problema di combinare necessariamente l’imprescindibile progresso tecnologico con la tutela dell’essere umano in un essere umano e della natura nella natura”. Il suo esempio, può darci pure una speranza in sintonia con l’elogio di Kopelev : “La maestà dello spirito [di Sakharov], il potere del suo intelletto, la purezza della sua anima, il suo coraggio e la sua disinteressata gentilezza cavalleresca può nutrire la mia fede sul futuro della Russia e dell’umanità”.

Gabrielis Bedris

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Un ritorno al passato stalinista

Il protagonista del romanzo dello scrittore Georgy Vladimov, “Fedele Ruslan” è un pastore tedesco addestrato a controllare i prigionieri del gulag. Stalin è morto, il suo campo è stato svuotato, Ruslan ora è un cane randagio, fa lo spazzino per racimolare del cibo in un insediamento cresciuto intorno al campo di prigionia e rievoca i bei vecchi tempi. Un giorno, quando una banda di lavoratori edili arriva alla stazione ferroviaria, Ruslan e altri cani da guardia senza lavoro, vengono trattati come dei detenuti e gli operai cercano di metterli tutti in fila. La novella, scritta a metà degli anni 1960, verso la fine della liberalizzazione di Nikita Krusciov, è sempre stata considerata profetica. Opere letterarie simili sono state diffuse clandestinamente attraverso il Samizdat negli ultimi decenni dell’era sovietica. Ricordo di aver letto la storia di una recluta dell’esercito inviata a guardia della mummia di Stalin, dopo che questa era stata rimossa dal Mausoleo nel 1961 e posta in un luogo segreto, perché chi sa mai che la linea del partito fosse cambiata ancora una volta e al “Padre del Popolo” gli fosse dovuto il suo posto d’0nore! Vladimov e molti altri scrittori avevano compreso la natura del sistema politico stalinista, erano stati in grado di prevedere come la storia russa avrebbe potuto rivelarsi e se sarebbe stata sopportata.
Stalin aveva creato uno Stato fatto su misura per lui, perfettamente calzante con la sua personalità e adatto alle sue ossessioni e paranoie; ha anche abilmente giocato con alcune caratteristiche nazionali del popolo russo, generandosi sia la lealtà che la paura.
Quando i suoi numerosi odierni ammiratori russi sostengono che Stalin fosse stato un “grande manager”, sono corretti sotto un certo aspetto: è riuscito a costruire un mostro straordinariamente durevole, che è sopravvissuto al suo creatore per oltre 6o anni e ora ha la prospettiva di una nuova giovinezza.
Nessuno dei successori di Stalin gli è assomigliato, sia in termini di tipo, di personalità o di temperamento. È vero, sono stati spietati, senza scrupoli e senza coscienza, altrimenti non sarebbero saliti attraverso le fila del Partito Comunista russo; ma erano anche esuberanti estroversi, apertamente narcisisti, zelanti e iperattivi. La raccolta dei titoli e delle medaglie riparatrici erano vane, erano ragazzi comuni, a loro mancava solo il mistero del potere assoluto e la magia dell’onnipotenza. Questo è il motivo per cui sembravano tutti buffoni che occupavano un trono che Stalin aveva creato per se stesso nella sua mente. I sovietici raccontavano molte barzellette su di loro, che colpivano per lo più per la loro stupidità e la loro maldestra inefficienza, e aspettavano, come il fedele Ruslan, il ritorno del Maestro.
Dopo la morte di Stalin, dapprima l’Unione Sovietica e dopo la Russia, hanno continuato a cambiare le apparenze, come un serpente cambia la sua pelle. Ora è un paese diverso, che bandisce il tricolore imperiale e l’aquila a due teste come emblema nazionale, entrambi i quali si sarebbero presi una pallottola nella parte posteriore della testa, se fossero stati visualizzati durante l’era di Stalin. Ma tutte queste sono variazioni dello stesso tema, proprio come i diversi inni nazionali del Paese che sono stati composti dallo stesso poeta ufficiale, Sergey Mikhalkov, cantati per lo stesso motivo senza che le diverse costituzioni potessero garantirne una versione.
Sotto tutto questo però, più sembrava che le cose cambiassero in superficie, tanto più si rimarcavano internamente. Il sistema politico russo rimane più o meno come lo era il giorno in cui spirò Stalin, il 5 marzo 1953. Ogni leader dopo Stalin ha dichiarato più o meno esplicitamente che il terrore stalinista non si sarebbe mai più ripetuto, ma in realtà non c’erano garanzie: nessun potere giudiziario, legislativo, un società civile indipendente o un supporto veramente indipendente.
La macchina repressiva e gli organi di Sicurezza dello Stato sono stati infinitamente rinominati e riconfigurati, non sono mai stati smantellati: anche loro erano in stand-by, pronti per il ritorno del Grande Leader. Ora l’attesa sembra essere stata premiata.
Stalin, anche nei suoi primi giorni di potere, era inquietante quanto Vladimir Putin, uno sconosciuto di medio livello operativo del KGB, montato al ruolo di capo dello Stato di Stalin. Segreto, prudente e sobrio, si è prontamente circondato di una certa aura mistica. Parla a bassa voce, è indifferente alle medaglie che Nikita Khrushchev e Leonid Brezhnev amavano appuntarsi; appare in pubblico come un grigio dirigente aziendale; non ha mai promosso il culto della sua personalità direttamente, ma ha lasciato questo compito ai suoi adulatori. A differenza di Kruscev e di Mikhail Gorbaciov, non ha mai visualizzato eventuali entusiasmi e passioni, facendo appello alla profonda inerzia della società russa.
Come Stalin, si mette in una posizione un po’ in disparte dal potere: la sua autorità non deriva da un titolo, ma dal semplice fatto che lui è Putin. Ha potuto nominare temporaneamente Dmitry Medvedev come presidente, senza perdere nulla del suo potere; come Krusciov, che sentiva il bisogno d’essere allo stesso tempo presidente, primo ministro e segretario del partito.
Ci sono un sacco di altre somiglianze tra Putin e Stalin. Putin è un uomo piccolo e non ama le persone che sono più alte e più imponenti di lui: la maggior parte delle persone dell’entourage di Stalin erano più basse di lui. Come Stalin, Putin ama circondarsi di buffoni: Medvedev è una specie di Krusciov di Putin. D’altra parte, Putin è altrettanto vile come lo era a suo tempo Stalin: egli teme l’assassinio e presta molta attenzione alla sicurezza. A quanto pare, al Gruppo dei 20 l’anno scorso a Brisbane, in Australia, si è rifiutato di toccare qualsiasi cibo che gli servivano per paura d’essere avvelenato.
Putin è irregolare e imprevedibile, e come Stalin, le sue decisioni le mantiene molto segrete, utilizza i suoi subalterni, come ha fatto quando ha scelto Medvedev come suo successore nel 2008, per farsi restituire la presidenza nel settembre 2012, completamente di sorpresa.
Ci sono anche alcune analogie nelle loro biografie. Si dice che Putin abbia trascorso parte della sua infanzia in Georgia, ed è anche il primo presidente al Cremlino dopo Stalin, ad aver vissuto all’estero per un certo periodo di tempo.
Fa un sacco di senso sentire che Stalin si fidava delle persone provenienti dal Caucaso; come è un po’ sorprendente che Ramzan Kadyrov, stia svolgendo un ruolo importante nella Russia di Putin, a quanto pare anche assumendo alcune funzioni punitive.
Il popolo russo è conquistato da Putin allo stesso modo in cui era stato conquistato da Stalin. Putin è completamente diverso da ogni precedente leader sovietico o russo: allieta il ripristino di tutte le leggi e i divieti d’epoca sovietica, sembra pronto, per marchiare i nemici del popolo e per ricercare le spie e i traditori, a promulgare una legge con delle denunce anonime per i vicini. Putin ha chiesto un sacrificio nazionale e la nazione è pronta a soffrire impoverimento e privazioni, anche se non è chiaro cosa intende realizzare.
Putin ha condiviso molti dei tratti della personalità di Stalin, ma è anche continuamente plasmato dalla sua posizione, dal suo potere assoluto, dall’adulazione pervasiva e dall’isolamento del Cremlino. Di conseguenza, sta diventando per molti versi sempre più come Stalin, consapevolmente o meno, ma lo emula. Mentre tutti i precedenti leader russi avevano mogli, sempre per lo più tenute in secondo piano, Putin è il primo leader russo dopo Stalin, a non avere una coniuge. Mentre Stalin potrebbe aver ucciso la sua seconda moglie, Svetlana Aliluyeva, Putin ha crudamente ha respinto la sua, che sembra aggiungere al suo appello un segno mistico del potere assoluto, così come la sua cavalcata solitaria lungo le strade vuote di Mosca durante la sua ultima nomina a presidente nel 2012, che è stata un qualcosa che ha sia spaventato che entusiasmato i suoi sudditi.
Nessuno può dire se la trasformazione di Putin sarà completa e diventerà un maniaco omicida paranoico come Stalin; anche se sembra probabile che lo faccia, ma la nazione lo amerà ancora di più per questo.
Né è ancora chiaro se Putin morirà in carica, come lui apparentemente sembra che abbia deciso di fare; ma se non lo facesse per esempio, se venisse estromesso prematuramente da un colpo di palazzo, l’Ucraina avrà molto a che fare con un tale fatto. C’è forse una nota di ironia nel fatto, che Vladimov fosse nato a Kharkiv, e che il film basato sul suo “fedele Ruslan” fosse stato girato in Ucraina nel 1992, poco l’indipendenza dello Stato.

Gabrielis Bedris

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Una nuova fase in Ucraina

Mosca si sta spazientendo perché l’Ucraina sta ritardando la resa legale in una qualche forma delle “Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk” e di riscrivere la sua costituzione con sua soddisfazione e delle due “repubbbliche”. L’armistizio di Minsk Due, imposto all’Ucraina il 12 febbraio, prevede che il processo politico si completi entro dicembre di quest’anno; ma tuttavia, è subordinato a un cessate il fuoco completo, durevole e verificabile sul campo. E, dal momento che l’Ucraina non è disposta a sacrificare la propria sovranità in base ai termini politici dell’armistizio, mentre i proxy russi continuano le ostilità in campo con variabili livelli d’intensità, Mosca cerca di costringere Kiev ad attuare i termini politici dell’armistizio, pur sapendo che palesemente viola il cessate il fuoco su base quotidiana e non sta soddisfacendo la condizione primaria dell’accordo. Il Cremlino ha iniziato a prendere una serie di misure proiettate a rompere o eludere questo stallo politico: rivedere i propri obiettivi politici in Ucraina con una vena più ambiziosa.
Rivolgendosi ai partecipanti del recente Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo, il presidente Vladimir Putin ha spiegato una duplice pretesa russa sullo Stato ucraino. La seconda di queste affermazioni è nuova: un credito per il futuro ucraino. “In ultima analisi, in un modo o nell’altro, la Russia e l’Ucraina sono destinate a condividere il loro futuro – seguito da una marea di applausi da parte degli astanti – anche se l’Ucraina ha il diritto di scegliere – ha continuato Putin – siamo legati da infrastrutture tecniche, energetiche e da trasporti comuni. Questa è già una questione per la Russia, si tratta dei nostri interessi”. L’altra pretesa di Putin non deriva da una visione futuristica, ma da un’ottica pseudo-storica. – I russi e gli ucraini sono un popolo, un’etnia con la loro propria specificità, le loro caratteristiche. Siamo anche uniti dalla capacità di parlare l’un l’altro in un unico linguaggio – ha continuato Putin.
Nei termini del tradizionale nazionalismo russo che Putin ha adottato, sussumere l’identità ucraina a quella russa, implica respingere le basi per uno Stato nazionale ucraino, dipingendolo come innaturale e temporaneo, in ultima analisi, destinato alla fusione con lo Stato russo, come Putin ha più volte segnalato.
Visto in questa luce, attivare o sospendere il progetto di Nuova Russia (che colpisce otto province ucraine), e il passare dal sostegno alla secessione di Donetsk-Lugansk, al spingere le due repubbliche affinché vengano sottomesse all’Ucraina e che possano dettare delle condizioni costituzionali paralizzanti, appaiono come mosse tattiche. L’obiettivo finale del Cremlino, sia per riassorbire o per disabilitare, è l’Ucraina in quanto tale, mentre morde pezzi territoriali lungo il percorso, a seconda delle circostanze.
Nel suo intervento a San Pietroburgo, Putin ha affrontato quattro rivendicazioni immediate in Ucraina: a) cambiare la costituzione con la de-centralizzazione del sistema amministrativo territoriale del paese; b) adottare e cominciare ad applicare uno status speciale per Donetsk-Lugansk (l’attuale proposta paralizza lo Stato); c) validare le elezioni locali che si terranno a Donetsk-Lugansk (per legittimare e legalizzare le “repubbliche popolari”, e d) iniziare a finanziare le spese sociali e ricostruire i territori.
L’Ucraina dovrebbe attuare queste richieste attraverso negoziati diretti con Donetsk e Lugansk; cioè, con la loro soddisfazione (se insoddisfatti, Mosca inizierebbe a sostenere che l’Ucraina si è rifiutata di fare). Queste sono infatti le disposizioni politiche contenute nell’armistizio di Minsk. Tuttavia, la loro attuazione è sequenziata a dopo che avesse preso piede il cessate il fuoco durevole e verificabile. Putin sta ora invertendo quella sequenza.
Inoltre, Putin ha fatto capire che la Russia avrebbe continuato ad armare le forze di Donetsk-Lugansk, fino a quando l’Ucraina non si sarebbe conformata a tali richieste politiche: “Nei conflitti regionali di tutto il mondo, i belligeranti trovano sempre armi da qualche parte. Questo è anche il caso dell’Ucraina orientale. Ma, se la situazione viene risolta politicamente, le armi non sono necessarie. Ciò che è necessario è la buona volontà d’entrare in un dialogo diretto [Kiev con Donetsk-Lugansk]”.
Allo stesso modo, Nikolai Patrushev, il segretario del consiglio di sicurezza russo, ha pubblicamente lasciato intendere che Mosca continuerà a facilitare il flusso transfrontaliero di combattenti russi in Ucraina, fino a che Kiev non si sottometterà alle questioni politiche: “Non ci sono gruppi terroristici a Donetsk e Lugansk. Tutto può essere risolto senza una guerra civile, rispettando l’accordo di Minsk. Ma non è stato rispettato. I cittadini della Federazione Russa vanno a combattere nel Donbas. Noi non lo chiediamo alle persone di fare questo; ma è impossibile prevenirlo. Le emozioni esistono e lavorano, gli uomini vanno per unirsi e lottare… L’Ucraina non vuole negoziare con i rappresentanti di questi gruppi armati; ma deve farlo. Non possiamo chiudere quel confine. Chi siamo noi per imporre un blocco là?”. Così, Mosca sta aprendo una nuova fase nella sua guerra contro l’Ucraina. L’intimidazione militare è la più evidente, la minaccia di continuare la guerra con la sottoscrizione delle deleghe è la più sfacciata. Il Cremlino vuole cambiare l’armistizio di Minsk unilateralmente invertendo la sequenza d’attuazione delle sue disposizioni. Tale documento impone all’Ucraina delle concessioni politiche condizionate all’arresto delle ostilità russe; ma poiché l’Ucraina resiste, la Russia sta ora facendo pressione su Kiev per ottenere tali concessioni incondizionatamente.
Alcuni funzionari della commissione europea a Bruxelles chiedono all’Ucraina di soddisfare la domanda di Mosca: vale a dire, iniziare il rispetto dei termini politici dell’armistizio di Minsk, senza aspettare che la Russia per prima rispetti i termini militari; senza dubbio Mosca, con l’aiuto dei membri della commissione, sta contando su questo effetto.

Gabrielis Bedris

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Putin e il circolo vizioso

L’Economic Forum di San Pietroburgo 2015 sarà ricordato per due cose: il breve elenco di partecipanti stranieri e la proposta dell’ex ministro delle finanze russo, Alexei Kudrin di tenere le elezioni presidenziali anticipate. I due fatti sono collegati: il numero degli ospiti stranieri che osano visitare la Russia si sta riducendo, come diretta conseguenza degli ultimi 18 mesi delle decisioni di Putin.
La proposta di Kudrin per delle elezioni presidenziali anticipate, è progettata per dare al regime un ulteriore margine di sicurezza, per poter disegnare e stabilire ancora una volta nuove strategie poggiate su un ampio consenso sociale, per emanare e dare legittimità ad una nuova serie di riforme che possano rilanciare l’economia e il sistema politico russo.
Tuttavia, se Putin avesse voluto avviare delle riforme per rilanciare l’economia e il sistema politico, avrebbe potuto attuarlo molto prima, forse già a partire dalla metà degli anni 2000. Non importa quanto la sua carriera politica si possa sviluppare da oggi in poi, ma Vladimir Putin rischia di diventare un altro esempio di un leader che tragicamente delude le aspettative di tutti coloro che in origine hanno accolto la sua ascesa al potere.
Putin è apparso all’orizzonte politico russo quando il paese si stava appena riprendendo dalla crisi economica del 1998, e il suo primo presidente, Boris Eltsin, era politicamente impopolare e fisicamente malsano. Il giovane e vigoroso ex ufficiale del KGB, con esperienza di lavoro democratico nel comune di San Pietroburgo, era sembrato a molti come la migliore occasione del paese per un cambiamento positivo.
Putin ha anche beneficiato della favorevole situazione economica: i prezzi del gas e del petrolio hanno fatto sì che, per la prima volta in un quarto di secolo, il governo non avesse bisogno di guardare ad ogni rublo del bilancio. Eliminando l’ex primo ministro Mikhail Kasyanov nel 2004, Putin si liberò degli ultimi impegni informali legati al cerchio interno di Eltsin, e si pose per iniziare una trasformazione della Russia verso uno dei paesi in via di sviluppo, più dinamico al mondo. Se ci fosse riuscito, la Russia sarebbe diventata un “faro”, verso il quale le altre repubbliche post-sovietiche avrebbero potuto attingere senza coercizioni. Invece, ora vediamo i risultati piuttosto deplorevoli degli ultimi 15 anni: crescente isolamento internazionale, prospettive in calo dell’economia nazionale e assunzione di rischi. Questo perché i leader durante questi anni hanno usato l’economia nazionale non per far crescere lo Stato strategicamente, ma per arricchire una ristretta cerchia di amici intimi del Cremlino. Le loro fortune di grandi dimensioni non sono evidenti, perché ognuno di loro, come in ogni sistema feudale, è circondato da una cerchia di persone a loro carico e confidenti. Essi, a loro volta, agiscono come “alimentatori” per gran parte della popolazione di Mosca e per i piccoli capi regionali, persone che pensano erroneamente di far parte della classe media russa, mentre sono semplicemente degli ausiliari al servizio dei feudatari di questo vasto sistema.
Sotto di loro vivacchiano molti milioni di russi che dipendono da una serie di pagamenti previsti nel bilancio: gli stipendi mensili ai funzionari, i medici, gli insegnanti e il personale militare, le pensioni, i benefici per chi è in maternità, o in congedo o disabile.
Nello schema marxista del feudo, la ridistribuzione della ricchezza procedeva con imposte alle classi meno abiette per sostenere la élite privilegiata. Tale sistema è invertito nella Russia moderna. I gruppi privilegiati all’apice della scala devono condividere il loro reddito con i loro assistenti per garantirsi la continuità del servizio, e l’esercito dei cittadini è affidato ai fondi di bilancio, supponendo che questa forma di stabilità sia la migliore. Il problema principale con questo paradigma non è solo di prevedere le esigenze di pochi eletti, mentre non si fa nulla per assicurare lo sviluppo del paese, ma questo disegno può funzionare correttamente solo se chi è al potere ha del superfluo. Quando le risorse sono limitate, come lo sono ora a causa del crescente isolamento russo, il sistema inizia a crollare.
Anche se i gruppi privilegiati, doverosamente continuano a far scorrere i soldi, anche nei momenti difficili, semplicemente non c’è abbastanza denaro per riempire ogni mano tesa.
Quando, nell’equazione “denaro + propaganda tv = stabilità sociale”, la variabile “denaro” viene rimossa, la gente spegne i televisori. Non importa quanto grande possa essere l’intensità emotiva e l’apparente efficacia della propaganda governativa; ora quel momento non è lontano.
Nel proporre le elezioni presidenziali anticipate, Kudrin sta essenzialmente suggerendo che Putin effettuerà una campagna politica federale per un cambiamento, un giorno prima che arrivi il buio, in caso contrario, la situazione potrebbe diventare imprevedibile e andare fuori controllo.
E’ difficile discutere con questa logica: Putin ha così tanto denudato il campo da gioco politico durante i suoi anni di potere, che nessun candidato è maturo per poter offrire un’alternativa al suo governo. Tutto ciò che rimane sono pochi gruppi radicali marginali che hanno ottenuto una certa notorietà nel corso del conflitto in Ucraina orientale.
Purtroppo, questo panorama politico dà pochi motivi per essere ottimisti se Putin non dovesse prendere parte alle prossime elezioni presidenziali, in anticipo o in altro modo. Allo stesso tempo, anche se dovesse correre per la presidenza e vincesse, cosa ci si può aspettare di diverso dal sistema che già si conosce. Quello che era iniziato come un serio dilemma è ormai degenerato in un circolo vizioso. Per salvare la situazione, la Russia ha bisogno di riforme e solo Putin ha l’autorità e il potere di realizzarle, ma a giudicare dalle sue dichiarazioni pubbliche, Putin condivide il parere della maggior parte dei russi che un secondo tentativo di perestroika possa portare il paese in luoghi inesplorati. Pertanto, se Putin resta presidente, lui non attuerà nessuna riforma e la situazione potrà solo che peggiorare.
Anche se l’élite politica russa mantiene i segni esteriori della solidarietà e anche l’entusiasmo, comincia a mostrare segni interni di ansia, per la fine, ovviamente, inevitabile e traumatica del corso politico attuale. Tuttavia, sarebbe un errore ritenere che questo segnali un imminente risveglio di una più profonda consapevolezza politica.
Nel quadro del sistema politico che si è sviluppato in Russia, ci sono pochissime soluzioni al problema attuale; quel scarso numero di persone che potrebbero dare una svolta, equivalgono grosso modo al numero dei potenziali candidati presidenziali che potrebbero ottenere l’approvazione di tutti i segmenti della classe privilegiata, così come quella dei molti elettori che sentono un senso di gratitudine personale a Putin per aver dato loro la possibilità d’acquistare una Ford Focus, assemblata in Russia.
Ma questo è solo un nuovo mezzo per preservare lo status di “nuovo gruppo privilegiato”, anche se con un leggero cambiamento dei soci, e non per far progredire il bene pubblico attraverso riforme economiche strutturali. Cosa c’è di più: non c’è alcuna garanzia nella realtà che esista anche un solo candidato alla presidenza che possa soddisfare un compromesso politico così complesso.
Nel loro insieme, questo significa che ci sono probabilità d’assistere e partecipare all’atto finale di questo episodio della storia russa. Il dramma potrebbe trascinarsi un po’ più a lungo del previsto, ma una volta che il sipario si alza, il paese che ora esiste sarà andato per sempre, senza alcuna garanzia che il nuovo ci possa piacere più di questo.

Gabrielis Bedris

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Si parla di Guerra Fredda, ma è uno scherzo?

Vediamo che l’America, con i suoi alleati dell’Europa orientale della NATO, sta riposizionando i carri armati per controbilanciare la Russia; gli aerei militari americani e quelli russi recentemente si stanno sfiorando a 10 centimetri di distanza; la Russia sta costruendo una nuova generazione di missili balistici a lungo raggio; gli Stati Uniti e la Cina si stanno spingendo nel Mar Cinese Meridionale. Ma c’è qualcuno che vuole riavviare la guerra fredda mentre io guardavo da un’altra parte? Se è così, questa sembra che sia una guerra fredda senza divertimento, senza i James Bond, i Smersh, “Get Smart” l’agente 86, una corsa alla luna, o un dibattito tra occidentali e leader sovietici per sapere chi ha i migliori elettrodomestici da cucina; non posso nemmeno pensare che a Kiev il presidente Obama dichiari, alla maniera del presidente Kennedy, “Ich bin ein ukrainisch”, o usando il gergo dei nostri giorni “Reset con la Russia” o “pivot in Asia” o il rullo di tamburi; per favore un poca di “distensione”.
No, questo periodo post Guerra Fredda ha più l’atmosfera di un WWE (World Wrestling Entertainment), e non mi riferisco solo al presidente Vladimir Putin che corre per la Russia a torso nudo su un cavallo, anche se è una metafora; si tratta solo di spintoni di potere per il potere, non uno scontro di influenti idee, ma piuttosto di sfere d’influenza: “Hai attraversato questa linea, eccoti un pugno sul naso”. “Perché?”. “Perché lo dico io”. “Hai? un problema?” Sì, mi permetta di mostrarle il mio drone. Hai un problema con questo?”. “Niente affatto. I miei ragazzi informatici hanno rubato il sistema di guida la settimana scorsa da Northrop Grumman”. “Te ne frega qualcosa?”.
La guerra fredda ha avuto un inizio, una fine e anche una tenda di chiusura con la caduta del muro di Berlino; ma il post Guerra Fredda ci ha portato al punto di tornare alla pre-guerra fredda e al gioco delle nazioni. Ci fu un momento in cui sembrava che tutto sarebbe stato altrimenti, sembrava che gli arabi e gli israeliani avrebbero fatto la pace, che la Cina si sarebbe evoluta in un sistema politico più consensuale e che la Russia sarebbe diventata parte dell’Europa e del G-8. Era una vita fa.
Ora i giornalisti occidentali lottano per ottenere un visto in Cina, nessun uomo d’affari con un cervello porta il suo computer portatile a Pechino, gli hacker cinesi hanno più dati personali tuoi che LinkedIn e Facebook, la Russia è ancora intenzionata a diventare parte dell’Europa, allegando un pezzo qui e un pezzo là e il G-8 ora è un G-1,5 (l’America e la Germania).
Ma quando tutto è diventato così acido? Si è sparato il primo colpo quando c’è stato l’ampliamento della NATO verso il confine con la Russia, anche se l’Unione Sovietica era scomparsa. Messaggio a Mosca: Lei è sempre un nemico, non importa che sistema abbia. Quando i prezzi del petrolio hanno recuperato Putin ha cercato la sua vendetta per l’umiliazione subita nel 1991, ma ora sta solo usando la minaccia della NATO per giustificare la militarizzazione della società russa, così lui e i suoi cleptocrati compagni, possono restare al potere e dipingere i loro avversari come lacchè dell’Occidente.
Con il rovesciamento del leader libico Muammar el-Gheddafi dalla NATO, la primavera araba e le proteste di piazza di Mosca che seguirono alle panzanate di Putin, ha spiegato Sergei Guriev, un economista russo con sede a Parigi: “Putin ha capito d’aver perso la classe media russa e così ha iniziato a cercare legittimazione da qualche altra parte” nel nazionalismo esagerato e nell’antiamericanismo. Ma Guriev rende un punto importante: “Se non fosse per le sanzioni occidentali sulla Russia, l’Est ucraino oggi sarebbe già parte della Russia”, aggiungendo che non c’è nulla di cui Putin tema di più che un’ Ucraina che riesca a far diminuire la corruzione e a costruire un’economia moderna, cioè tutto ciò che non è la sua Russia. Guriev è preoccupato tuttavia, che la propaganda anti-occidentale di Putin sia stata pompata nelle vene del pubblico russo, che avrà un effetto duraturo e che renderà peggiore di lui il suo successore.
La leadership cinese non è così stupida o disperata come Putin, ha bisogno d’accedere ai mercati statunitensi, e per ora, i leader cinesi si comportano con una certa moderazione nel far valere i loro crediti nel Mar Cinese Meridionale. Ma il fatto è, come ha osservato l’esperto di Asia Andrew Browne, che “il rapporto USA-Cina ha perso la sua ragion d’essere strategico: l’Unione Sovietica, la comune minaccia, ha portato i due paesi insieme”, non ne ha forgiato uno nuovo, ma ne ha creato uno come co-manager della stabilità globale.
In breve, l’attrazione dell’economia degli Stati Uniti e il morso delle sanzioni occidentali sono più vitali che mai nella gestione del gioco post-guerra fredda delle nazioni, tra questi si può annoverare l’Iran portato ai colloqui sul nucleare. Si potrebbe essere tornati di nuovo alla tradizionale geopolitica, ma è dentro un mondo più interdipendente e dove il peso economico occidentale è ancora una fonte di moderazione per Mosca e Pechino. Putin non nasconde per nulla il suo coinvolgimento militare in Ucraina e ha paura di ulteriori sanzioni bancarie; la Cina non circoscrive il suo comportamento nel Mar Cinese Meridionale, lei non può crescere senza esportare in America e in Europa. Le armi sono importanti, ma sono un pezzo di burro. Questo è il motivo per cui bisogna essere in espansione e aprire occasioni di libero scambio con l’Asia, oltre che tra l’Europa e gli Stati Uniti, ed è la ragione per la quale la più importante fonte di stabilità nel mondo attuale è la salute per prima dell’economia americana, seguita a ruota da quella europea. Si può camminare dolcemente solo fino a quando si ha un grosso bastone e un grande portafoglio.

Gabrielis Bedris

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La politica del “bastone e carota”

Le dichiarazioni ufficiali, le interviste e i commenti sulla crisi ucraina da parte di alcuni membri del governo e dei vertici militari russi, denotano l’uso della “carota e del bastone”. Mosca per esempio, sostiene che l’accordo di Minsk II rappresenti il migliore modo di procedere, mentre con le continue violazioni del cessate il fuoco, le scaramucce, il collaudo delle difese ucraine in combinazione con gli “esercizi a pressione” e le voci di una possibile invasione, mostrano un altro lato di questo approccio. In tutte queste manovre, il presidente Vladimir Putin mantiene il dominio dell’escalation, scalza i suoi avversari occidentali e sembra che la politica russa in Europa stia guadagnando sempre più trazione, anche se con diversi livelli di successo, che vanno dalla ricerca di accordi economici con la Grecia alla ricerca di un alto profilo in Vaticano.
Putin è stato occupato sul fronte diplomatico internazionale, pur trovando il tempo per “lanciare” una sciabola nucleare con il rinnovato annuncio dei 40 missili balistici intercontinentali (ICBM), provocando un effetto a catena all’interno del Trattato Nord Atlantico (NATO); anche se, da uno dei suoi principali luogotenenti, il capo dell’amministrazione presidenziale, Sergei Ivanov, è emersa una linea più morbida.
Ivanov, in qualità di ex ministro della difesa e compartecipe con Putin nel comando del Servizio di Sicurezza Federale (FSB), ha fornito, durante l’incontro a San Pietroburgo nell’ambito di un’intervista trasmessa sul programma d’attualità Vesti, alcuni commenti meno rivali. In queste note, Ivanov, oltre che respingere l’idea d’anticipare le elezioni presidenziali per ristabilire il mandato prima d’effettuare delle profonde riforme economiche, ha elogiato Minsk II. Secondo l’ex ministro, l’accordo di Minsk II ha offerto il “modo ideale per risolvere il conflitto interno ucraino, e che la Russia è stata costantemente invitata ad esercitare la sua influenza sulla milizia. Io credo che l’abbia esercitata in modo molto pesante, tanto che le milizie combattenti hanno fatto una mossa fondamentale: hanno cambiato la loro posizione. In un primo momento volevano l’indipendenza, mentre ora sostengono d’essere pronte, se gli accordi di Minsk sono implementati, a continuare a far parte dell’Ucraina”. Ivanov ha poi chiarito – ma Kiev non ha fatto niente, quindi non è che si dovrebbe pressare la milizia, ma si dovrebbero esercitare delle raccomandazioni su coloro che, per dirla diplomaticamente, hanno una forte influenza sulle autorità di Kiev”. Anche se la maggior parte dei commenti di Ivanov hanno rappresentato degli argomenti molto familiari, l’ex ministro ha però sottolineato d’aver notato in Washington una nuova volontà per risolvere la crisi “con mezzi politici”. Ivanov ha difeso a spada tratta le politiche russe in Ucraina, anche se il suo atteggiamento sembrava contenere un nuovo elemento: raggiungere una soluzione trascendendo dal formato Normandia.
Ivanov ha chiarito che Mosca avesse considerato delle azioni per ampliare la composizione del Gruppo Normandia, ma che alla fine avesse realizzato che non fossero delle buone scelte. Invece, la Russia e gli Stati Uniti hanno optato d’aprire un dialogo diretto tra le due nazioni, con il coinvolgimento diretto del vice segretario di Stato americano, Victoria Nuland e il suo omologo russo, Grigoriy Karasin. L’ex ministro ha insistito che “agli Stati Uniti fosse venuta l’idea di provare davvero a risolvere la crisi ucraina con mezzi politici. C’è stato un accordo per stabilire un formato con un canale bilaterale russo-americano, Karasin-Nuland. Perché bilaterale? – ha continuato Ivanov – In linea di principio, avremmo potuto ampliare il formato Normandia includendo gli Stati Uniti; ma il formato Normandia è fragile in questo momento, questo passo sarebbe stato rischioso. Quindi, per evitare di distruggere tutto, abbiamo concordato di coordinare le nostre attività, per quanto riguarda l’Ucraina, su base bilaterale”. Ivanov ha legato la nuova strategia alla visita fatta a Sochi dal segretario di Stato John Kerry, e da una realizzazione di Washington, che la situazione in Ucraina fosse entrata in una spirale “fuori controllo”.
Il commento di Ivanov, che allude alla paura di Mosca per una “rivoluzione colorata”, sottolinea la mancanza di fiducia tra gli Stati Uniti e la Russia; con quest’ultima che si vede con un elevato rischio di sicurezza interno. Ciò è stato confermato dal ministro della difesa Sergei Shoigu, il quale ha annunciato che il suo ministero ha intenzione d’avviare una ricerca dettagliata e approfondita sul fenomeno “rivoluzione colorata”, al fine d’evitare l’esperienza del crollo sovietico del 1991 e della crisi interna del 1993. I commenti di Shoigu sono importanti, non da ultimo per confermare che il ministero della difesa vede nelle sue forze un ruolo per proteggere il regime e garantire la sicurezza interna. Durante la mostra Armiya 2015, nel villaggio di Alabino nella regione di Mosca, Shoigu, nel corso di una tavola rotonda dal titolo “Esercito e Società” ha sostenuto: “Noi non dobbiamo ripetere i crolli russi del 1991 e del 1993. Era una storia diversa, ma è evidente che abbiamo bisogno d’affrontare questa situazione. Dobbiamo capire come fermare questi fenomeni e come far crescere i nostri giovani in modo che abbiano la testa indirizzata su una giusta strada, per poi tranquillamente e progressivamente far crescere il nostro paese”. Shoigu ha sottolineato che dovranno essere studiate le varie forme di “rivoluzione colorata”, tra cui la primavera araba, quella serba e “quella davanti ai nostri occhi”, con un chiaro riferimento agli eventi di Kiev.
Inoltre, le osservazioni di Shoigu di studiare le rivoluzioni colorate sono in combine con il familiare e costante motivo dell’utilizzo militare e della difesa russa: “ispezioni a sorpresa” e improvvise esercitazioni militari, che servono ad inviare messaggi strategici e anche intimidatori a Kiev. Il messaggio di fondo di Mosca è che un’ulteriore escalation delle operazioni in Ucraina è ancora nelle carte, ma che è stata aperta la via diplomatica USA-Russia per evitarne l’uso. Pertanto, l’uso del bastone e della carota conserva tutte le opzioni per Mosca: il Cremlino crea dubbi tra gli alleati della NATO, solleva domande sul motivo per il quale l’Occidente dovrebbe inviare aiuti letali all’Ucraina e aiuta Putin a mantenere l’iniziativa. Tuttavia, forse più che mai Mosca sembra tenere aperta la porta diplomatica, e, quindi, l’accordo di Minsk II sembra in un qualche modo, presentare almeno un’illusione di speranza.

Gabrielis Bedris

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I ritardi e l’irrilevanza dei problemi russi

Il forum economico annuale di San Pietroburgo è sempre stato visto come un grande raduno d’investitori e di portatori di svariati interessi economici, oltre che un momento per l’ascolto del discorso annuale del presidente Vladimir Putin nel quale anticipa degli utili suggerimenti per incrementare i dividendi all’interno dell’economia russa. Quest’anno, però, la tradizionale pompa è stata ridotta e le suggestioni per incrementare i potenziali margini di profitto sono stati appena sfiorati, senza nessuna visione. Inoltre, l’indirizzo indicato dal presidente russo era del tutto privo di un qualsiasi contenuto significativo. Molti economisti tradizionali russi, tra cui l’ex ministro delle finanze Alexei Kudrin, erano pronti a discutere le allarmanti prospettive di stagnazione che si stanno approfondendo nel paese, sostenendo che stanno generando imperativi per profonde riforme, ma Putin invece ha scelto di sfidare la gravità economica, sostenendo che in Russia non c’è nessuna crisi, e che la fiducia “arriva lottando in mezzo alle difficoltà”.  
Il tentativo di non voler nominare il termine “crisi” però, si scontra con le statistiche ufficiali. Anche dopo l’intelligente slalom verbale di Putin, i numeri economici mostrano una contrazione più profonda delle peggiori previsioni previste dal governo. Ciò che colpisce in questo contesto è che quasi la metà dei partecipanti ritenesse che non fosse necessaria nessuna riforma, perché lo Stato in questo momento ha delle priorità politiche ben più importanti. L’umore aspro tra la folla dell’élite burocratica e del business è stato accentuato dalla decisione dell’Unione europea di prorogare le sanzioni contro la Russia per altri sei mesi. Un’estensione delle attuali sanzioni era generalmente prevista, ma la decisione è stata presa nel modo, piuttosto che come un dato di fatto, perché si percepisce che ci possano essere delle pene aggiuntive. Le condanne di Putin degli “ultimatum” occidentali e le pretese che le sanzioni siano solo dei benefici per l’economia russa, sono solo un rumore politico per gli imprenditori. Infatti, gli operatori economici sanno che, la vera portata del problema del sotto-investimento, è aggravato dalla decisa fuga dei capitali nazionali. 
La cosa che ha distrutto ogni residua galleggiabilità del forum è stata la scioccante, anche se del tutto prevedibile, serie di congelamenti di attività statali russe da parte delle autorità belghe, in seguito alla decisione della corte di arbitrato dell’Aia, che aveva sancito un risarcimento agli azionisti Yukos di 50 miliardi di dollari. I funzionari russi hanno debitamente espresso indignazione per questo cosiddetto “abuso d’applicazione della legge motivato politicamente”, tanto che il ministro degli esteri Sergei Lavrov, ha minacciato di ricambiare il sequestro dei beni belgi in Russia, ben sapendo che la Francia ha avviato la stessa procedura e che gli altri Stati membri dell’UE sarebbero stati obbligati a seguire l’esempio. Putin non ha affrontato nel suo discorso tale problema, ma in seguito ha dovuto eludere le domande dei media, assicurando che la Russia avrebbe difeso i propri interessi attraverso un “processo civile legale”. In realtà, ci sono poche opportunità per contestare o appellare il verdetto, il Cremlino ha sostanzialmente perso la discussione con Mikhail Khodorkovsky, il quale ha sottolineato che la pena fosse un bene per la Russia, perché il risultato finale è un rafforzamento dei diritti della proprietà nazionale. 
Putin ha avuto diverse sessioni di dialoghi al forum di San Pietroburgo, ma tutta la sua abilità nel vendere fumo economico non è riuscita a dare una convincente impressione; al contrario, ha prodotto una pesante risonanza la sua improvvisa dichiarazione d’aver disposto 40 missili balistici intercontinentali (ICBM). Il numero in sé è tutt’altro che impressionante (ne aveva effettivamente promessi 50 un anno e mezzo fa), ma nel contesto delle crescenti tensioni militari e dei rischiosi incidenti delle intercettazioni aeree, l’abituale spavalderia strategica diventa irresponsabile e bellicosa. La Russia ha investito molto nella modernizzazione del suo arsenale strategico invecchiato, e, nella situazione di profonda crisi economica, il Cremlino è desideroso di sfruttare le opportunità per trarne eventuali guadagni politici. Sembra, che Putin sia convinto di poter ottenere dei dividendi politici da un suo tale atteggiamento, infatti tutte le sue dichiarazioni sui sistemi d’arma russi rivolti contro le forze militari americane appena schierate in Europa, aggiungono solo una crescente percezione di minaccia alla NATO. I bluff nucleari non possono essere ignorati quando sono accompagnati dalla progressiva militarizzazione dell’enclave di Kaliningrad e dalle dichiarazioni del generale, Vladimir Shamanov, comandante delle truppe aviotrasportate, che afferma che circa dieci battaglioni sono pronti per una rapida implementazione al di fuori dei confini russi.
Ma, mentre le manifestazioni e le provocazioni di Mosca sono concentrate nel teatro Baltico, l’obiettivo principale della pressione russa è ancora l’Ucraina. Putin sostiene l’impegno degli accordi di Minsk, ma le sue reiterate accuse contro le interferenze degli Stati Uniti e la manipolazione della crisi ucraina, dimostrano che lui continua a vedere gli scontri locali intorno Donetsk come un campo di battaglia nello scontro globale per la ricostituzione dell’ordine mondiale. I compromessi e i cessate il fuoco in questo confronto non negoziabile possono essere solo temporanei, e dividere l’Ucraina lungo le attuali linee di trincea lascerebbe la Russia con la perdente proposta di dover sostenere la “Nova Russia”. Il forum di alto profilo di San Pietroburgo è stato molto probabilmente l’ultima possibilità per Putin di virare da un sentiero di guerra a delle riforme economiche, eppure il suo grave errore d’interpretazione della situazione economica, sostiene Kudrin e ogni potenziale investitore, tra cui la presente Cina, è che l’idea stessa di riforme venga fermamente respinta in quanto è incompatibile con la sopravvivenza del regime.
Putin può pensare di poter continuare a temporeggiare; ma in realtà questa fuga dalle decisioni lo rendono inoperoso e irrilevante sia per la crisi economica, che sta montando, che per l’escalation della “guerra ibrida”. L’economia russa ha guadagnato un poco di dinamismo per il fatto che i prezzi del petrolio non sono più in caduta libera; ma la stessa tendenza negativa potrebbe essere innescata da un altro tocco di sanzioni occidentali. La guerra può anche sfuggire al roboante comandante in capo, che evidentemente ha perso ogni senso di direzione e vive nella paura di una “rivoluzione colorata”, per la quale le armi nucleari non forniscono alcuna protezione. I suoi cortigiani hanno iniziato ha tirare in diverse direzioni, ma il “proteggere” porta solo cattive notizie. Il procrastinare diventa inaccettabile da ogni imprenditore che ha bisogno di protezione contro i predatori dei servizi di sicurezza personale (siloviki); da ogni burocrate, preoccupato per la confisca dei suoi beni mal guadagnati; e da ogni signore della guerra, alla ricerca di uno sbocco per la sua repressa frustrazione con lo status quo. Putin è impostato per scoprire che gli alti indici d’approvazione significano qualcosa solo nelle democrazie.

Gabrielis Bedris

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E se il Donbas fosse isolato?

Da quando il leader del Bloc di Poroshenko, Yuri Lutsenko, ha dichiarato che il “presidente ucraino crede che il tumore debba essere sottoposto a un isolamento”, tutti gli ucraini stanno animatamente discutendo se Kiev debba recidere tutti i legami con l’enclave del Donbas, occupata dai russi.
L’argomento per un isolamento, comporterebbe un taglio totale dei rapporti economici, nonché le forniture di energia elettrica, gas e acqua: sarebbe semplicemente strategico. L’Ucraina è in guerra con la Russia e con le sue marionette; il Cremlino ha iniziato la guerra e sembra non avere alcuna intenzione di porvi fine; i burattini di Putin sono impegnati in continue aggressioni, violano sistematicamente il cessate il fuoco e dichiarano apertamente l’intenzione di conquistare almeno tutto il Donbas. Kiev sa che non può vincere sul campo di battaglia, ma spera d’essere in grado di fermare l’ulteriore espansione russa. Se l’Ucraina vuole prevalere, Kiev deve fare tutto il possibile per indebolire la macchina da guerra di procura del Cremlino. Un isolamento potrebbe accelerare il declino economico dell’enclave Donbas e rendere la regione ancora più ingovernabile. L’emarginazione appoggerebbe il fine.
Un argomento contro l’isolamento si basa su preoccupazioni umanitarie e politiche. L’emarginazione aggraverebbe le difficoltà dei cittadini ucraini dell’enclave che non meritano di soffrire per le malefatte dei separatisti, abbandonarli non sarebbe solo una crudeltà, ma anche controproducente, in quanto li porterebbe ad odiare la loro madrepatria: l’Ucraina. Inoltre, tagliare tutti i legami economici del Donbas con l’Ucraina, vorrebbe dire solo guidare la regione tra le braccia della Russia, quindi sigillare la sua perdita.
Entrambi gli argomenti sono convincenti, ed entrambi gli argomenti comportano dolorosi compromessi, ma secondo me penso d’aver individuato come potrebbe essere imposto un tale isolamento. Da qualsiasi lato lo si voglia guardare dipende sempre da ciò che l’Ucraina vede come priorità. Per me, questo è facile: la priorità è la guerra che sta uccidendo i soldati e i civili, che sta pregiudicando l’economia nazionale dell’Ucraina, che minaccia la stabilità e le sue prospettive di sopravvivenza e che ostacola le riforme. La guerra deve finire, o essere congelata, il più presto possibile. Se l’isolamento promuovesse questo obiettivo, allora è giustificato.
Il popolo del Donbas potrebbe soffrire in seguito? Sì; ma dobbiamo ricordare questo. La prima scelta di Kiev non è chi deve soffrire, ma chi dovrebbe soffrire di più. Dovrebbero pagare i quaranta milioni di ucraini che sono in Ucraina, che stanno già pagando un prezzo esorbitante in termini di sangue e di denaro, o i 3 milioni di “Donbassiani” del Donbas, che stanno anche loro pagando un prezzo esorbitante per il loro sbagliato sostegno all’avventura separatista? Per me, i 40 milioni che hanno fatto la scelta giusta sconfiggono i 3 milioni che hanno fatto la scelta sbagliata.
L’isolamento potrebbe guidare la regione tra le braccia della Russia? Sì e no. Per cominciare, la maggior parte dei residenti dell’enclave detestano l’Ucraina e tutto ciò che spera di diventare (occidentale, democratica, uno stato con regole di diritto); idem per i separatisti e i loro leader. In effetti, la regione è già persa dall’Ucraina. Allo stesso tempo, non è del tutto chiaro se l’enclave possa aderire alla Russia. Il Cremlino ha messo in chiaro che vuole che l’enclave rimanga in Ucraina. Ma, se come me, non credete alle dichiarazioni di Mosca, prendiamo in considerazione le sue gesta. La Russia ha costruito 100 chilometri di fossato lungo il confine con la parte occupata del Donbas, apparentemente per tenere fuori i contrabbandieri. Se questo è l’intento reale non è chiaro, ma il solo fatto di un lungo fosso che separa la Russia “corretta” dall’enclave dei suoi burattini, afferma d’essere un atto liberatorio ovviamente, non testimonia il desiderio russo d’integrare l’enclave. E perché dovrebbe? Ricostruire la regione costerà miliardi, e Mosca è già più che a posto con il caos economico interno oltre che la Crimea.
Quindi serve o un’Ucraina riformata, orientata verso occidente e prospera senza enclave Donbas, o una non riformata Ucraina, filo russa, con la restituzione dell’enclave “piccola Russia”. Non si possono avere entrambe le cose. Un ex agente del KGB ucraino che ora vive a Washington afferma: “I due territori di Donetsk e Lugansk catturati dall’aggressore … sono un cavallo di Troia. Putin lo ha messo in piedi, ora che se lo alimenti. Consentire che il “cavallo” torni in Ucraina equivale ad un suicidio politico ed economico”.

Gabrielis Bedris

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Putin e la sua geopolitica

Negli ultimi 15 anni la Russia ha sperato di formare con la Cina un fronte comune anti-americano, se non un fronte anti-occidentale più ampio. I due paesi sono impegnati in una simile retorica, lamentano un mondo “unipolare”, in cui un’unica superpotenza, gli Stati Uniti, sta controllando il sistema economico e politico globale, come il sistema finanziario, che si basa sul suo dollaro ed impone agli altri Paesi le regole di comportamento. Tuttavia, mentre i russi hanno uno scontro con il “Diavolo”, i cinesi si comportano con molta cautela e non si sono mai avventurati al di là di una qualche appassionata ramanzina.
Dal momento che la Russia un anno fa, ha finalmente rotto con l’Occidente ed è entrata sotto un regime di sanzioni economiche, ha cambiato lato ed ha cominciato a guardare più assiduamente verso la Cina. Il Cremlino ha deciso di riorientare il suo commercio verso l’Asia come una questione di strategia a lungo termine, in particolare inviando il suo petrolio, il gas naturale e le altre risorse naturali ai mercati cinesi e ad acquistare prodotti cinesi, invece che quelli occidentali. Sono stati sottoscritti importanti accordi commerciali e il governo russo ha iniziato a cedere porzioni di terra siberiana perché la Cina la sviluppasse, la sfruttasse e infine vi si stabilisse.
Il leader cinese Xi Jinping è stato l’ospite d’onore alla sfilata del Giorno della Vittoria a Mosca lo scorso maggio, e i soldati cinesi hanno marciato sulla Piazza Rossa per la prima volta, ma la Cina non è desiderosa di prestare servizio anche a sostegno della guerra unilaterale della Russia con gli Stati Uniti; al contrario, i cinesi sembrano decisi a sfruttare la difficile situazione economica russa, acquistando risorse russe a buon mercato e legando Mosca al mercato cinese con contratti a lungo termine, che pesantemente favoriscono la parte cinese.
La Cina moderna si è sforzata di dimostrare che non è interessata a movimenti radicali o ad un confronto aperto non solo con gli Stati Uniti, ma anche con le nazioni più piccole della regione. Ha crediti di varie isole, ma la sua azione si limita a parlare molto duro.
D’altra parte, dal momento che Vladimir Putin ha iniziato le sue disavventure in Ucraina, l’avversione di Pechino ad un’alleanza con Mosca è, se possibile, diventata ancora più forte. Ed è giusto che sia così: sarebbe addirittura pericoloso per una nazione responsabile, sfruttare la sua politica per un regime che, per usare l’espressione di Angela Merkel, “vive in una realtà diversa”. In effetti Putin, piuttosto che mostrarsi come un uomo decisivo, un leader, in netto contrasto con gli sdolcinati presidenti e i primi ministri occidentali, ha dimostrato con l’annessione della Crimea quanto lui sia irregolare e libero da qualsiasi sistema di controllo e d’equilibro. In Ucraina orientale, il suo esercito sta mettendo in mostra gli effetti di quindici anni d’intensi sifonaggi dal bilancio dello Stato, abbandono, nepotismo e cattiva gestione. I cinesi hanno sicuramente notato questo.
Putin ora è impantanato in Crimea e ha dovuto ridimensionare i suoi piani per l’avventatamente dichiarata “Nova Rossia”. Questo ha rivelato che è un povero stratega, incapace di pensare due passi avanti, un qualcosa che per i cinesi è un grande difetto.
Tutto sommato, con una Russia senza amici e alle corde, che sta bussando alla porta della Cina, cosa può quest’ultima guadagnarci con il sostegno russo? In altre parole, la Cina sembra essere interessata solo ad utilizzare l’attuale isolamento e il disagio economico acuto russo per estrarre sempre più, concessioni territoriali, economiche, politiche e…
Eppure, nonostante queste sfavorevoli condizioni, Putin continua a cedere le risorse russe e terreni alla Cina, e per quanto strano possa sembrare, c’è una logica. Solo che è difettosa.
Il mondo visto dal Cremlino è dominato dalla politica della forza. Gli stati-nazione si spartiscono le sfere d’influenza sulle nazioni più piccole mentre manovrano a proprio vantaggio sul globo usando vecchie sciabole e facendo accordi sottobanco. In altre parole, è un mondo come si usava nel 1880. Putin, secondo lui, dovrebbe sedersi al tavolo dei negoziati con Barack Obama e delineare i confini degli imperi coloniali dei due paesi. Il fatto che Obama non sia disposto a farlo, è solo “perché gli americani sono arroganti: pensano che siccome ci hanno sconfitto nella guerra fredda, credono di non aver bisogno di noi per darci un pezzo di torta, vogliono tutto per loro”. O si? OK, li rifaremo pensare.
In secondo luogo, Putin e il suo entourage credono che il mondo si trovi sull’orlo di grandi guerre per il petrolio e per le altre risorse naturali, e che una volta che tali prodotti inizieranno a mancare, le grandi potenze si prenderanno per la gola a vicenda.
Così mentre cede le proprie risorse alla Cina senza neppure essere stato sconfitto in una guerra, intende inviare un messaggio alla Casa Bianca: “visto, idioti, sto rafforzando la Cina, perché vi rifiutate di fare un accordo con noi, così noi diamo loro libero accesso alle nostre vaste risorse. La Cina non avrà più necessità d’importare cibo e materie prime industriali attraverso il mare e non dovrà più temere il vostro dominio navale. Quindi voi, stupidi americani, diventerete una potenza di secondo piano, perché non volete darci ciò che sono i nostri diritti e il riconoscimento della nostra causa”.
Il problema qui è che il mondo è cambiato dal 19 ° secolo, dopo che le grandi potenze europee si sono strapazzate per l’Africa e per gli altri possedimenti coloniali; le risorse naturali sono scarse e alcune stanno mancando; tuttavia, le sfide nel mondo moderno sono affrontate non con il controllo di più risorse, ma con lo sviluppo di nuove tecnologie, nuovi materiali, nuove fonti di energia e anche nell’economizzarle.
In modo simile, Thomas Malthus, nella prima metà del 19 ° secolo, aveva predetto che il mondo sarebbe stato a corto di cibo perché la produzione agricola non sarebbe stata in grado di sostenere, per esempio, un paio di miliardi di esseri umani. Oggi, ci sono più di sette miliardi di persone sul pianeta, eppure la rivoluzione verde ha sostanzialmente risolto il problema del nutrimento di una popolazione più grande.
Anche lo sguardo molto superficiale alle imprese high-tech mostra che gli Stati Uniti sono leader mondiali nel campo dell’innovazione tecnologica e del know-how. Lo stabilimento tecnologico americano, composto dalle sue università, istituti di ricerca e dai mercati finanziari, non è secondo a nessuno. Inoltre, la sua leadership innovativa è cresciuta perchè attira risorse intellettuali e finanziarie da tutto il mondo.
La Cina è diventata una ricca economia dinamica e una protagonista internazionale lavorando all’interno del sistema economico globale dominato dagli Stati Uniti, non cercando inutilmente di sovvertire, come sta facendo Putin. I leader cinesi sanno che: le migliaia di miliardi di dollari in loro possesso forniscono un cuscino economico per l’influenza politica e per gli investimenti di capitale. Se detronizzano il dollaro e destabilizzano il sistema dal quale dipendono quale sarà la loro sopravvivenza?
La Cina si rende anche conto che l’influenza americana in Asia e altrove assicura la pace, la stabilità e la prosperità; se Washington non avesse giocato da poliziotto regionale, nelle nazioni che sono estremamente diffidenti e timorose della nuova e potente Cina, queste si sarebbero unite e armate per resistere a Pechino. Nessuno avrebbe beneficiato delle crescenti tensioni. Dal punto di vista americano, d’altra parte, una forte e prospera Cina è un partner di pace, non un rivale per il dominio del mondo o uno spietato concorrente per le risorse naturali. Se la Cina ha messo le mani sul petrolio e sul gas russo e ha preso la terra disabitata per risolvere i problemi della sua popolazione, è perché è sicura di sé, ed ha una forte partecipazione per preservare la pace nell’attuale sistema economico. Questo è il motivo principale per cui Putin ha il broncio con l’Occidente: la svolta storica russa nei confronti della Cina, ha lasciato i politici delle principali capitali per lo più indifferenti.

Gabrielis Bedris

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