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Articles by Gabrielis Bedris

Mese

aprile 2015

Le controversie tra Grozny e Mosca

Il sovrano della Cecenia, Ramzan Kadyrov, è coinvolto in una disputa con il ministero degli interni russo. Il 19 aprile, gli agenti delle forze dell’ordine che stavano effettuando un’operazione speciale a Grozny, hanno sparato e ucciso un sospetto, dopo che la vittima aveva cercato di speronare una macchina della polizia; Jambulat Dadaev, riferiscono le forze dell’ordine, era sulla lista dei ricercati per un omicidio nella vicina regione di Stavropol. Quello che inizialmente sembrava essere una normale operazione di polizia in Cecenia si è trasformata invece in un enorme scandalo nazionale.
A quanto pare, gli agenti di polizia coinvolti non erano ceceni, ma provenivano della regione di Stavropol e hanno agito senza informare i loro colleghi. L’esercito russo di stanza a Khankala, nel sobborgo di Grozny, sta aiutando la polizia di Stavropol. L’operazione speciale ha indignato Kadyrov, il quale ha aperto un’indagine completa sull’incidente. A suo avviso, la polizia e i militari coinvolti avrebbero agito in violazione alle istruzioni. “Non devono succedere queste cose sul nostro territorio – ha dichiarato Kadyrov in una riunione governativa straordinaria il 20 aprile – Coloro che la pensano diversamente, si sbagliano. Abbiamo pagato a caro prezzo la pace e l’ordine. L’era del 2000 è passata. Se qualcuno voleva ottenere un risultato rapido prendendo e uccidendo un ceceno, questo non accadrà di nuovo. Chiediamo un processo legale. Premetto ufficialmente che se qualcuno appare sul nostro territorio senza che io lo sappia, non importa se moscovita o della regione di Stavropolian, verrà ucciso”.
Gli esperti e i russi ordinari sanno da tempo che la Cecenia è de-facto fuori dal controllo delle agenzie governative e praticamente fuori dallo spazio legale russo: un luogo dove non funzionano le leggi russe. Questa è stata la prima volta, tuttavia, che Kadyrov lo ha sottolineato ufficialmente. Le forze personali di Kadyrov hanno il pieno controllo sul territorio della Cecenia, gli agenti federali russi non possono operare sul territorio senza il suo consenso, mentre la grande forza militare russa, di stanza nella repubblica, è sotto il suo diretto controllo.
Durante la riunione governativa, Kadyrov ha reso le sue prerogative: “Dovrebbero rispettarci. Noi non abbiamo il diritto d’andare in Inguscezia per effettuare operazioni contro gli estremisti e i terroristi. Se hai un tuo territorio, dovresti averne il controllo. Basta. Loro ci hanno denigrato e insultato. Noi non adottiamo la costituzione della Federazione russa per consentire loro d’ucciderci”.
Dopo le dichiarazioni di Kadyrov, gli investigatori ceceni hanno aperto un fascicolo contro le azioni della polizia di Stavropol a Grozny, con l’accusa d’abuso d’autorità. Il capo del ministero della direzione degli interni a Grozny, Sergei Chenchik, è arrivato nella capitale cecena per seguire da vicino gli sviluppi, mentre il noto difensore civico dei diritti umani del governo ceceno, Nurdi Nukhazhiev, sta continuamente affermando che la polizia avesse ucciso Dadaev, invece che arrestarlo quando alzò le mani. Inoltre, Nukhazhiev sostiene che dei daghestani avessero pagato la polizia di Stavropol per uccidere Dadaev. Il comitato investigativo russo ha chiuso in un solo giorno l’indagine, a dimostrazione del potere ceceno. Ma, in risposta, Kadyrov ha chiesto al comitato investigativo che venissero spiegati i motivi della decisione e che la Russia avrebbe dovuto risarcire i parenti dell’ucciso.
Un’ondata d’indignazione si è scatenata nei media russi, i quali sostengono che la Cecenia sia un territorio russo, quindi sotto la responsabilità delle autorità federali russe, mentre Kadyrov, non ha autorità d’usurpare il potere in una regione come la Cecenia. Se tutte le regioni russe iniziassero a comportarsi così, sostengono a Mosca, l’integrità territoriale della Russia potrebbe essere compromessa.
Reagendo all’ondata delle critiche pubbliche russe, Kadyrov ha sostenuto che se fosse stato necessario si sarebbe dimesso, ribadendo contemporaneamente la sua piena lealtà al presidente Vladimir Putin. L’affermazione di Kadyrov sulla sua disponibilità a dimettersi, suonava più come una minaccia che ad una scusa.
Il conflitto non si è fermato a queste scaramucce. Il 23 aprile, il ministero degli interni russo ha dichiarato che la polizia di Stavropol avesse preventivamente contattato i colleghi ceceni spiegando dell’operazione. Kadyrov, a sua volta, ha accusato il ministero dell’Interno russo di mentire, ribadendo la sua posizione nei confronti delle polizie degli altri territori che avrebbero operato in Cecenia, oltre che aver chiarito che a lui spetti il monopolio della sicurezza del territorio ceceno, quindi molto vicino a rivendicarne la sovranità, soprattutto in considerazione delle attuali realtà russe.
Anche se la Cecenia ha cessato d’essere un’arena di operazioni militari attive su larga scala, non si sa che cosa potrebbe accadere se arrivassero le dimissioni di Kadyrov. Kadyrov sembra scommettere sulla sua indispensabilità. Il Cremlino potrebbe avere un piano a lungo termine per un licenziamento “soft” di Kadyrov: s’afferma che gli sia stato offerto la carica di vice primo ministro del governo russo, tuttavia, secondo il rapporto, Kadyrov dovrebbe aver rifiutato la proposta, perché resosi conto che l’offerta, in realtà fosse solo un’eliminazione politica.
Se questa situazione si protraesse non ci sarebbero altre soluzioni per Putin che sostituire il suo fedele alleato, con una possibile completa destabilizzazione della Cecenia. Le mosse del governo russo per minare ed eventualmente sostituire Kadyrov dovranno seguire la logica del controllo dei danni. Mosca dovrà prepararsi ad affrontare tempi duri in Cecenia eliminando gli attuali evidenti rischi; ma Kadyrov è visto come una minaccia alla sicurezza, in un momento in cui l’economia russa sta sperimentando un ancora un forte calo.
G. Bedris

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Tutti in Ucraina

Nel mese di ottobre 1949, dopo che le forze sconfitte di Chiang Kai-Shek fuggirono a Taiwan e Mao Zedong dichiarò la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, i repubblicani al Congresso americano accusarono Harry S. Truman, di perdere la Cina. Alcuni hanno chiesto un perno dall’Europa verso l’Asia nella politica estera degli Stati Uniti; Truman forse poteva esserne convinto pochi anni prima, quando i rapporti degli Stati Uniti con l’URSS erano cordiali, in effetti dopo l’incontro con Joseph Stalin a Potsdam nel 1945, il presidente americano scrisse: “Mi piace Stalin. E’ semplice. Sa quello che vuole e quando non può fare una cosa trova dei compromessi”.
Probabilmente c’è un travisamento dei leader russi. L’ex presidente George W. Bush aveva inizialmente trovato il presidente russo Vladimir Putin “semplice e affidabile”, il presidente Barack Obama, con le sue parole “è riuscito a resettare” le relazioni Usa-Russia ed era desideroso di ritirare le forze Usa dall’Iraq e dall’Afghanistan, tutto imperniato nel suo primo mandato in Asia.
Negli ultimi quindici anni l’America ha cambiato due volte l’atteggiamento in Europa, prima e dopo il 9 settembre. Quali sono stati i risultati? La Georgia e l’Ucraina sono state invase, l’Europa è diventata divisa, la NATO si trova in pericolo mentre la generazione di legislatori del dopo 11 settembre, politici, studiosi e pensatori sanno di più sul Medio Oriente e l’Asia che della Russia e dell’Europa dell’Est. La politica estera americana ha bisogno d’equilibrio, non di perni, è arrivato il momento di stabilizzare di nuovo la NATO e l’Europa.
Nel 1990, c’era una visione di un’Europa unita e libera, una strategia chiara; la prospettiva d’adesione alla NATO e all’Unione Europea avrebbe incentivato i paesi post-comunisti ad istituire sistemi multi-partitici e ad introdurre libere elezioni, stato di diritto ed economie di mercato. L’allargamento dell’Unione europea e della NATO avrebbero esteso le zone di prosperità e di sicurezza nell’Europa centrale e orientale. Molto è stato compiuto; ma la trasformazione sociale non è un semplice problema d’ingegneria. L’eredità del comunismo, con la sua pazza distorsione economica e la distruzione all’ingrosso della società civile, non erano facilmente superabili.
In un discorso del settembre 2001 nel Bundestag tedesco, Putin aveva chiesto una vasta cooperazione tra la Russia e l’Occidente. Il leader russo aveva assicurato ai deputati tedeschi che “la guerra fredda era finita”; ma Putin è un opportunista. Mentre l’ex impero sovietico lottava e l’Occidente trasferiva altrove l’attenzione, Putin ha rapidamente preso l’occasione al volo per minare i progressi e restituire il gioco al Cremlino, con la manipolazione e il dominio. Ha iniziato ad usare la propaganda per soffiare sul fuoco del populismo e del sentimento anti-occidentale, cominciando a sostenere i partiti estremisti di sinistra e di destra, sia in Europa che in Russia, mentre le politiche energetiche di Mosca favorivano la divisione interna e creavano dipendenza. I metodi di Putin sono insidiosi. La sua visione di un’Europa divisa non è uguale alla nostra; ma per cercare di tornare a una visione di un’Europa unita e libera dovremmo fare tre cose.
In primo luogo, aiutare l’Ucraina: alla Russia è stato permesso sia con azioni militari che con l’eccezionale e sfacciata menzogna, di rompere in due un paese sovrano. L’aggressione russa non deve essere concessa, né si devono far nutrire illusioni in tal senso: l’Ucraina è politicamente ed economicamente debole, ma le parti principali dell’Ucraina orientale, sotto il controllo dei separatisti filo russi russi, non verranno devoluti facilmente. Un numero crescente di etnici russi nella regione del Donbas, molto appassionati di Putin un anno fa, ora lo vedono come il protettore del “genocidio ucraino”. La propaganda russa è stata efficace, ma deve essere combattuta in Ucraina come uno degli elementi di una più ampia strategia, con politiche economiche e politiche solide a lungo termine volte a ottenere un percorso europeo. Le sanzioni settoriali e i divieti di visto sono buoni, ma dovrebbero essere incrementati ed estesi anche ai familiari dei funzionari russi coinvolti. Un’azione a breve termine: tenere a bada la Russia mentre cerca di risolvere i suoi costi sanzionatori.
In secondo luogo, tornare ad una strategia per un’Europa unita e libera. Gli attuali membri della NATO in Europa centrale e orientale meritano più sostegno politico e militare. Gli Stati baltici affrontano crescenti intimidazioni e alti livelli d’infiltrazione. Lo spionaggio russo è tornato ai livelli della Guerra Fredda. A meno che l’alleanza non sia coesa e decisa, in tutte le grandi e piccole cose, è inconcepibile che si possa tenere aperte le porte della NATO e dell’UE alla Georgia, Ucraina, Moldavia, Macedonia e Montenegro.
In terzo luogo, sviluppare un’articolata strategia per spostarsi verso lo Stato russo in tema di diritto in patria e all’estero, con un comportamento responsabile. Si deve iniziare a potenziare le capacità radiofoniche, televisive e di stampa per dimostrare ai russi i valori europei di libertà e di diritto, per far avanzare l’agenda occidentale contro l’ingannevole propaganda russa.
Facciamo dichiarare, per una visione a lungo raggio, che l’Occidente è tutto unito. La Russia di oggi ha un governo poco responsabile, ma arriverà il giorno in cui la pace e il futuro democratico dell’Ucraina diventeranno realmente possibili e la nostra visione di un’Europa unita e libera, avrà la possibilità di un duraturo successo.

G. Bedris

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Il ritorno del revisionismo

Le crescenti tensioni tra l’Occidente e la Russia, e gli Stati Uniti e la Cina vanno ben oltre gli interessi in competizione per un’area industriale in Ucraina orientale, o per delle rocce disabitate nel Mar Cinese Meridionale, ma fondamentalmente esistono perché la Russia e la Cina acquisteranno sfere d’influenza nei loro rispettivi quartieri. La Russia cerca una sua speciale influenza nell’ex Unione Sovietica, mentre la Cina sta cercando di fare una realtà della sua linea di nove trattini nel Mar Cinese Meridionale.
Per quasi un quarto di secolo, gli Stati Uniti si sono preoccupati del ritorno all’ordine di sfere di influenza come quelle che esistevano durante la Guerra Fredda, o prima della seconda guerra mondiale. Infatti, nel 2013, il Segretario di Stato John Kerry, ha anche formalmente ripudiato la Dottrina Monroe (la quale esprime l’idea della supremazia degli USA nel continente americano, 1823). I presidenti che si sono succeduti hanno approvato la “unità e libertà” dell’Europa sottolineando costantemente il principio che tutti gli Stati dovrebbero arrivare a decidere le proprie relazioni estere. Questa politica ha avuto conseguenze reali, e in Europa in particolare dopo il crollo dell’Unione Sovietica, dove la NATO si è ampliata da sedici a ventotto paesi e l’Unione europea da undici a ventotto.
Tuttavia, è stato relativamente facile opporsi ad un ritorno alle sfere di influenza quando nessuna altra grande potenza cercava attivamente di ricostituirle; ma ora, la Russia sta usando una guerra ibrida per impadronirsi di territori in Europa, mentre la Cina sta usando tattiche di bonifica nel Mar Cinese Meridionale. Mentre la Russia e la Cina sono due diversi attori, queste strategie d’espansione territoriale rappresentano un problema particolarmente spinoso per gli Stati Uniti. La retorica americana è coerente, s’oppone al ritorno di un ordine di sfere di influenza, ma non è chiaro cosa significhi. Finora l’Europa, ha imposto alla Russia imponenti costi per l’appropriazione dei territori in Ucraina, ma non per fermarla o per obbligarla a restituire. In Asia, si stanno facendo degli sforzi diplomatici sulla sicurezza marittima, ma niente per punire o per fermare la strategia della Cina.
Per capire come scoraggiare gli sforzi russi e cinesi, è necessario cogliere l’elemento chiave della strategia d’espansione territoriale revisionista: gli Stati revisionisti tradizionalmente vanno dove non ci sono interessi vitali delle grandi potenze loro rivali. Quando una potenza rivale minaccia degli interessi vitali direttamente, è chiaro che ci si debba opporre. Ma, qual è il comportamento da tenere quando la controversia nasce per un qualcosa che quasi nessuno ha mai pensato o addirittura non ne ha mai sentito parlare?
Ovviamente, il termine interesse non vitale è un po’ fuorviante e spiega solo se percepito in modo molto vicino. Il modo in cui uno Stato aumenta la sua influenza conta profondamente. L’annessione e l’invasione non provocata costituiscono un’importante violazione della pace e minacciano interessi vitali degli Stati Uniti, inoltre, mentre le piccole rocce o strisce di territorio possono essere individualmente d’importanza strategica limitata, possono acquisire, se aggregate, un maggiore valore. Tuttavia, il fatto che nessun trattato sia stato violato e che il territorio stesso sembri d’importanza limitata è altamente significativo per le dinamiche e la psicologia di ogni crisi. Il piccolo valore strategico di un territorio che crea un conflitto con uno Stato revisionista, di solito, appare al tenutario della zona di gran lunga e inversamente proporzionale al costo straordinario sostenuto da chi attua la guerra per esso. Questo è il grande vantaggio che ha il potere revisionista e che può sfruttare spietatamente finché non oltrepassa il segno. Dopo tutto, il presidente americano rischierebbe una guerra nucleare per il Donbas? Per dirla in un altro modo, quanti interessi vitali Obama è disposto a compromettere per uno non vitale? Pertanto, se la potenza revisionista è intelligente, e di solito lo è, raccoglierà quei territori proprio perché non hanno un significativo valore strategico per rivaleggiare con le grandi potenze, anche se sono visualizzati in modo molto diverso dal paese più piccolo che subisce l’angheria.
Lo Stato revisionista può ridurre anche il rischio di una risposta militare delle potenze occidentali con un’altra tattica. L’aggressione non deve assumere la forma di una vera e propria invasione, ma deve coinvolgere qualcosa d’altro, come ad esempio la diplomazia coercitiva per affrontare una “situazione” di alcuni dei suoi cittadini bloccati fuori dei suoi confini o con mezzi civili per stabilire dei fatti sul terreno. Creata in questo modo, la situazione appare complicata; ma è proprio una situazione “complicata” in un luogo che non è “vitale” che mina immediatamente il sostegno interno e internazionale per una risposta forte. Questo non è un nuovo problema. E’ da manuale del revisionismo. Lo scopo è di rendere la deterrenza estremamente dura, per incoraggiare i rivali delle grandi potenze ad aprire le porte diplomatiche al fine di limitarne la risposta sino a renderla inefficace. Fu per questo motivo che l’impero britannico usò gli accordi di pacificazione come pilastro della sua grande strategia per mezzo secolo prima del 1930. Infatti, fino al 1938, gli accomodamenti erano considerati molto positivamente in Gran Bretagna. Come lo storico Paul Kennedy ha descritto, era “una politica predicata sul presupposto che, gli interessi nazionali se non colpiti in modo deleterio, fossero più a vantaggio se prevedessero una soluzione pacifica delle controversie piuttosto che una guerra”.
La complessità della sfida revisionista è tale che potrebbe prevedere l’accordo di pacificazione, almeno in alcuni ambienti; questo verrà incorniciato, come di solito succede, come parte di uno sforzo diplomatico che faciliti una piccola influenza aggiuntiva per lo Stato revisionista in cambio di una certa moderazione o di una sua cooperazione. Anche se questa sfida è nelle sue fasi iniziali in Europa e in Asia, ci sono molteplici esempi di pensatori strategici occidentali che stanno rendendo questo caso. Questi pensatori fanno notare che la maggior parte degli Stati revisionisti non siano una seconda Germania nazista, per cui la soluzione negoziata erga una migliore possibilità di successo.
Ci sono molti pensieri come chi sostiene una soluzione diplomatica ad ampio raggio con la Russia, riconoscendole un ruolo speciale nel suo quartiere, o che la deterrrenza sia controproducente quando si tratta della Russia di Putin, Stato pieno di paure e insicurezze, o che afferma che sia arrivato il momento che gli USA si siedano ad un tavolo con la Cina e le altre grandi potenze per dividersi il Pacifico e le sue regioni.
L’accomodamento rimane una cattiva idea, tuttavia, sia per i vecchi che per i nuovi motivi. L’unico caso in cui gli accordi hanno veramente “lavorato” sono nel caso britannico e gli Stati Uniti alla fine del XIX secolo; ma hanno funzionato per un motivo particolare, anche se non hanno certamente saziato gli americani. Gli Stati Uniti quando hanno avuto in tasca le concessioni hanno preso a calci la Gran Bretagna e l’hanno mandata fuori dell’emisfero occidentale. La storia ha avuto un lieto fine solo perché gli Stati Uniti hanno agito in modo commisurato con gli interessi a lungo termine della Gran Bretagna. In particolare, gli Stati Uniti sono intervenuti in favore della Gran Bretagna in due guerre mondiali. L’egemonia americana ha funzionato abbastanza bene per la Gran Bretagna, se non per l’Impero britannico.
Per creare un precedente affinché gli Stati Uniti possano essere buoni per la Russia o la Cina, bisognerebbe credere che questi paesi fossero altrettanto ben disposti a proteggere gli interessi americani a lungo termine, come gli Stati Uniti lo erano con la Gran Bretagna. Per avere una minima speranza di questa ipotesi bisognerebbe pensare che, una Russia democratica o una Cina democratica potessero seguire le regole dell’ordine internazionale, ma non c’è motivo di pensare che la dittatura russa o il regime autoritario cinese possano fare così, anzi, costruirebbero per dei loro guadagni, seppur gradualmente, sfidando l’ordine regionale in Europa e in Asia.
Nell’attuale sistema i nuovi accordi di riappacificazione non funzionano perché viviamo in un mondo post-coloniale in cui i popoli soggiogati non sono più disposti a saziare le grandi potenze. La Gran Bretagna aveva perseguito gli accordi di riapacificazione perché era un impero ed esisteva in un’epoca d’imperi. Noi, al contrario, viviamo in un’epoca postimperiale. Gli Stati Uniti conducono un ordine in cui godono di una posizione privilegiata, ma lo fanno solo perché la stragrande maggioranza degli Stati vuole che sia così. In un ordine dominato dalle democrazie, gli Stati Uniti non potrebbero semplicemente sedersi con i suoi concorrenti e riscrivere il futuro dei paesi indipendenti e delle loro popolazioni, sarebbe uno spettacolo estremamente dannoso per la legittimità dell’ordine, inoltre, gli Stati coinvolti potrebbero prendere in mano la situazione con il ritorno, in breve tempo, alle rivalità regionali.
Se gli accordi di pacificazione sono indesiderabili, cosa dovrebbero fare gli Stati Uniti e i loro alleati per scoraggiare il revisionismo moderno? Finché gli Stati revisionisti sceglieranno con cura i loro obiettivi e i mezzi, non c’è una risposta facile al problema. Non è semplicemente realistico minacciare di guerra ogni singolo atto revisionista, per i motivi di cui sopra. Tuttavia, ci sono dei passi che potrebbero essere nelle facoltà degli Stati Uniti.
Il primo è quello di descrivere gli atti revisionisti per quello che sono. Non bisogna minimizzare o cercare di passare sopra alle aggressioni territoriali, bisogna spiegare il motivo per cui si tratta di una palese violazione dell’ordine internazionale, anche se ci potessero essere coinvolti interessi “non vitali”. Il secondo è quello di rafforzare la deterrenza. Gli Stati Uniti dovrebbero costruire una capacità di difesa nei paesi vulnerabili per limitare le capacità offensive dei revisionisti, tra cui formazione ed equipaggiamento degli altri paesi per affrontare una guerra non convenzionale. Il terzo è quello di rafforzare l’ordine regionale e globale, facendo dell’opposizione all’espansione territoriale uno dei pilastri della politica estera statunitense, sviluppando percorsi legali e diplomatici. In un certo senso pratico, questo significherebbe fare pressioni alle nazioni europee affinché sostengano il diritto delle Filippine d’indire una causa contro la Cina per la disputa del Mar Cinese Meridionale e applicare delle pressioni sugli stati BRICS per condannare l’annessione della Crimea.
Infine, gli Stati membri dovrebbero dimostrare che l’espansione territoriale ha dei costi a lungo termine. Gli Stati Uniti dovrebbero chiaramente comunicare ai suoi concorrenti che una politica estera d’espansione territoriale riceverà una risposta di contenimento.
La grande forza del revisionismo è una sfida secolare. I leader non sono riusciti a porre un freno a tale fenomeno, non perché fossero incompetenti, ma perché il revisionismo sfrutta le reali vulnerabilità di uno Stato. Non esiste una soluzione facile, ma alcune segnalazioni della natura del problema, possono, almeno, portare ad un maggior impegno diplomatico.

G. Bedris

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I volontari ribelli ucraini

Quando Vladimir Berokonvsh, uomo d’affari russo, entrò a far parte dei volontari separatisti in Ucraina orientale, pensò che fosse un’opera umanitaria: si sarebbe offerto per combattere contro le orde fasciste intenzionate a vittimizzare la popolazione locale; ma la realtà sul campo si è rivelata molto diversa.
Invece di difendere gli abitanti e i civili dell’Ucraina orientale, racconta Berokonvsh, si trovò bloccato nella città di Alchevsk, dove i ribelli filo-russi, che controllano la zona, trascorrevano i loro giorni saccheggiando e bevendo.
– Al mattino il comandante ci faceva alzare e allineare per l’appello, la sera c’era un altro appello – spiega l’uomo d’affari ad un giornalista occidentale inglese – il resto del tempo i militanti s’aggiravano per la città di Alchevsk, saccheggiando, rubando rottami metallici, eliminando le porte di metallo che poi vendevano per comprarsi alcol e sigarette. Alcuni di loro si ubriacavano e si sparavano a vicenda.
Berokonvsh è recentemente tornato a casa dai suoi sei mesi di lavoro con gli insorti, ma si sente arrabbiato, truffato, preso in giro e umiliato.
Come molti altri volontari, aveva deciso di prendere le armi dopo aver visto i servizi televisivi russi che ritraevano le forze ucraine, ad oriente del loro paese, come teppisti neonazisti e persecutori degli abitanti di lingua russa.
– I rapporti del canale russo, Rossia 24, durante le ultime notizie ucraine erano costantemente nella mia mente – non potevo accettare e vedere quello che mi mostravano, non potevo accettare che delle persone umane potessero uccidere e derubare dei loro simili solo perché usano una lingua diversa. I media mi hanno influenzato.”
Berokonvsh aveva contattato l’ufficio reclutamento per l’insurrezione a Mosca, dove gli venne dato un numero di telefono cellulare da usare quando fosse già arrivato nella città meridionale di Rostov, vicino al confine con l’Ucraina.
Fermò il suo lavoro, si acquistò un coltello, un giubbotto antiproiettile e un biglietto di sola andata per Rostov, come gli aveva suggerito l’ufficio di Mosca. Arrivato a Rostov, chiamò il numero e seguì le istruzioni per raggiungere il gruppo che lo avrebbe portato in Ucraina. Rimase un poco stordito nel vedere che i reclutatori a Rostov non si preoccuparono di chiedere né l’identità né se avesse avuto esperienza militare – C’erano persone che non avevano alcun documento – afferma Berokonvsh.
– La prima cosa che vidi mentre stavamo attraversando il confine su un camion, fu una rissa tra due ribelli – continua Berokonvsh – subito capii dove ero atterrato: nulla aveva a che fare con un esercito. Ero già deluso dall’inizio.
Berokonvsh venne assegnato al battaglione “Fantasma” e inviato ad una unità in Alchevsk, dove gli venne consegnato subito un mitragliatore. L’unità alla quale fu assegnato era composta da militanti locali, russi volontari, alcuni ufficiali dell’esercito russo e una trentina di reclute straniere provenienti da Spagna, Italia e Francia. Ma Berokonvsh non assistette mai a nessun combattimento, né ricevette nessuna istruzione sul come usare l’arma che gli avevano messo in mano, o formazione militare.
Secondo lui, la stragrande maggioranza dei ribelli non hanno alcun interesse per la politica, la popolazione, gli ideali, ma solo aderiscono al “separatismo” per godere dei salari e dei materiali vantaggi concessi ai suoi membri.
Il militante descrive i suoi “colleghi” come “banditi”, spiegando che alcuni dei ribelli locali della sua unità fossero stati dei detenuti che cercavano tra la popolazione gli ex agenti di polizia per vendicarsi; spesso, c’erano zuffe, con omicidi.
Berokonvsh racconta che i militanti fossero molto ben attrezzati: “Avevamo tutto, eravamo completamente attrezzati. Avevamo granate, mitragliatrici, lanciagranate e munizioni, assolutamente tutto. Avevamo anche delle vetture a disposizione”.
Egli conferma inoltre che i carri armati avvistati in Ucraina orientale sono russi e che provenivano dalla regione di Rostov.
– Si, i ribelli sono i volontari che avevano servito nelle divisioni corazzate dell’esercito – sostiene – Sono stati addestrati in una base vicino a Rostov, dove hanno formato le unità. Questi carri armati sono stati trasportati al confine, poi hanno attraversato lo stesso in proprio. Dopo diverse settimane d’inattività a Alchevsk, Berokonvsh lasciò la sua unità e venne assegnato all’unità “ Volpe” nella cittadina di Nikishino, in prima linea.
Qui spiega, i combattenti non avevano chiare istruzioni, ognuno faceva ciò che voleva, l’unico imperativo era quello di sparare agli ucraini.
– Io non sono una eccezione – sostiene – i volontari russi sono stati disincantati, e io sono così sconvolto che sto pensando d’iscrivermi alla Guardia Nazionale ucraina per sradicare i separatisti. Ma per ora, ha un messaggio per tutti coloro che sono ancora tentati d’unirsi alla rivolta. “Non andate – esorta – ci è stato detto in televisione che fosse come la seconda guerra mondiale, ma in realtà si tratta di un puro atto d’aggressione. Questa non è una guerra per la quale vale la pena rischiare la cosa più preziosa che possiedi”.

G.Bedris

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L’Europa divisa in due, per la gioia di Putin

L’Europa spinta da diverse minacce esterne si sta, strategicamente parlando, rompendo in due: la debole cultura strategica centrale s’aggiunge alla tendenza centripeta, impedendo chiare visioni di ciò che è in gioco con la Russia di Putin. L’obiettivo strategico russo è quello di minare l’unità europea, la Russia tenterà di minare dall’interno il comune processo decisionale europeo.
Due grandi minacce si confrontano oggi in Europa. Sulle frontiere settentrionali e orientali dell’Europa, la Russia sta obbligando i paesi vicini a ri-orientare le loro attenzioni strategiche verso risposte militari convenzionali e ibride, mentre c’è un aumento di misure rassicurative della NATO nella regione del Mar Baltico. Nel sud, le scosse d’assestamento della primavera araba, il violento estremismo islamico dalla Siria e dall’Iraq alla Nigeria e il rigonfiamento di giovani insoddisfatti, formano un’onda perfetta per sopraffare Stati ed economie inefficaci. In termini di sicurezza, il controllo dell’immigrazione, la lotta alla radicalizzazione della diaspora e la lotta contro il terrorismo internazionale ed interno, sono inevitabili elementi all’ordine del giorno.
Tutti gli Stati europei nominalmente riconoscono entrambe queste minacce.; ma l’attenzione strategica reale è una scarsa risorsa. I paesi mediterranei come l’Italia e la Spagna, percepiscono di sopportare da soli il peso dello sforzo dell’immigrazione clandestina e i suoi costi umani ed economici. La Francia, purtroppo, è alla deriva nella stessa direzione, stimolata da sfide d’integrazione di un gran numero di giovani di periferia che sempre più si percepiscono come non francesi e non europei. La Francia combatte anche con i problemi del terrorismo di produzione propria, per la sua vicinanza ai conflitti che coinvolgono i radicali islamici nel Nord Africa e in Medio Oriente. In realtà, i paesi dell’Europa meridionale non riconoscono il fondamentale carattere della sfida di Putin in Europa (non lo fanno anche alcuni governi dell’Europa orientale, come ad esempio, l’Ungheria e la Repubblica Ceca, ma sono già visti come pedine perse nel grande gioco dell’unità europea). Nel miglior caso, la scarsità d’attenzioni porterà ad una divisione con diversi focolai geografici.
Le istituzioni e l’ideologia dell’Unione europea stanno rendendo particolarmente pericoloso questo crescente scisma europeo. Sul piano istituzionale, l’assenza di un equivalente europeo al governo federale americano, significa che l’unità europea dipende nel senso di scopo da Bruxelles, nonché dal sostegno delle capitali europee e da Washington; ma negli ultimi dieci anni Bruxelles è a corto di vapore. I rapporti politici in Europa sono sempre più “ ultra-bilaterizzati”. Le soluzioni sono per lo più ricercate tra le nazioni capaci, volenterose e rilevanti, piuttosto che in un forum multilaterale come l’Unione Europea. Questo indebolimento istituzionale significa che la Russia ha lo spazio per far fuori facilmente i paesi sul versante orientale, come nel caso dell’Ungheria, la Slovacchia e forse la Grecia.
Un fondamentale difetto nel progetto europeo peggiora la dimensione istituzionale. L’Europa fu costruita come una risposta alle guerre europee, ha portato su di sé una visione del mondo tipicamente burocratico. Durante il processo d’allargamento dei due decenni precedenti alla crisi attuale, il fascino del sistema giuridico dell’Unione serviva come un potente magnete, mentre allo stesso tempo disegnava e riordinava le nazioni più vicine, sia dentro che fuori; ma applicato alla Russia la stessa logica è sempre stata un fallimento.
L’UE pretende che il linguaggio legale possa soppiantare la geopolitica; la Russia, però, vede una sfera d’interesse attorno ai suoi confini, come Putin ha dimostrato, la geopolitica non è mai andata via, nonostante le migliori speranze dell’UE.
La burocratica visione del mondo dell’UE, purtroppo, è contagiosa e si diffonde nelle capitali europee, dove se dovesse influire negativamente, abbasserebbe l’attenzione strategica. L’Europa ha un punto critico strategico cieco, formato dall’idea che non esiste nulla oltre il potere politico, che le questioni strategiche possono essere ridotte alla gestione politica della sicurezza e che il dialogo e l’attrattiva della magia dell’acquis comunitario siano strumenti sufficienti di politica estera. Questa ideologia rende molto difficile all’Unione europea e a molti leader politici europei a riconoscere e ad affrontare i veri problemi geopolitici posti dietro alle azioni russe in Ucraina.
Nel nord, la Russia può inavvertitamente aver aumentato il senso di destino comune tra i paesi nordici e baltici, così come in Polonia e in Gran Bretagna. Anche così, a sud il focus strategico europeo, le tendenze centripete istituzionali e il pio desiderio burocratico di Bruxelles stanno contribuendo a rompere l’Europa in due. Purtroppo, un’Europa divisa è sia un mezzo che un fine per la Russia di Putin.

G. Bedris

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Putin illustra la sua politica in Ucraina

Nella sua annuale conversazione telefonica televisiva con la popolazione russa e nelle seguenti interviste, il presidente Vladimir Putin ha esposto a lungo i suoi attuali obiettivi politici sull’Ucraina.
Le osservazioni di Putin hanno evidenziato sia una coerenza strategica, che dei necessari aggiustamenti tattici per il costante consolidamento politico ucraino. Anche se il rituale della trasmissione telefonica televisiva era sempre avvenuto nella terza settimana di aprile, il tempismo di quest’anno aggiunge una nuova congettura militare, cioè che la Russia potrebbe riprendere le operazioni contro l’Ucraina in primavera. Le osservazioni di Putin hanno affrontato i rapporti bilaterali Russia-Ucraina, il conflitto nella zona dell’est ucraino e una definizione russa di identità nazionale ucraina.
A livello di relazioni statali, Putin vede che la coerenza della leadership ucraina, attraverso le linee di partito, sta frustrando le sue aspettative; il Cremlino ha cercato di giocare con le varie fazioni politiche a Kiev, ma questi tentativi non hanno portato ad alcun risultato. Mentre per le persistenti operazioni destabilizzanti, Putin sembra rassegnato a dover fare seriamente i conti con la leadership ucraina in carica, insolitamente coesa rispetto agli standard storici. Di conseguenza, Putin non cerca più in questo momento dei distingui tra il presidente Petro Poroshenko e il presunto “partito della guerra” a Kiev, né Mosca può più identificare specifici politici ucraini come potenziali alleati. Nel suo dialogo telefonico, Putin ha dato un colpo al regime ucraino pre-2014, definendolo come “corrotto” e “oligarchico”, sconfessando implicitamente l’attuale opposizione del partito Bloc, a Kiev, un discendente diretto del partito delle Regioni di Viktor Yanukovich. Durante il suo evento telefonico pubblico, Putin ha fatto una piccola riflessione sulle forze politiche ucraine: “Noi non siamo guidati da simpatie o antipatie, siamo guidati dagli interessi del nostro Paese”; e “la leadership politica ucraina può cambiare di volta in volta, ma le persone rimangono”. Lui stava strettamente parafrasando rispettivamente, il primo ministro britannico, Lord Palmerston e il dittatore sovietico Joseph Stalin, nel 19° secolo, senza attribuzioni in entrambi i casi.
Putin, per i suoi ascoltatori ucraini, ha delineato una base per la “normalizzazione” dei rapporti Russia-Ucraina in termini generali, definendo la risoluzione dei conflitti nel “Donbas” (le parti occupate delle province di Donetsk e Lugansk) all’apice dell’ordine del giorno.
Per quanto riguarda la riforma della Costituzione ucraina ha mugugnato: “non sta a noi imporre questo o quello all’Ucraina, ma abbiamo il diritto d’esprimere la nostra opinione, in particolare sui diritti e gli interessi delle persone di lingua russa in Ucraina”.
Temporalmente la Russia, nell’interesse reciproco, riattiverà le relazioni economiche bilaterali con l’Ucraina. Infine, le “autorità di Kiev devono trattarci come partner alla pari in tutti gli aspetti della cooperazione”; apparentemente voleva significare che lo status della Russia e dell’Occidente dovessero avere le stesse priorità nazionali in Ucraina. Dato il consenso dell’Unione europea per rinegoziare l’accordo commerciale UE-Ucraina con la partecipazione russa come una terza parte, ora Putin può smettere d’attaccare la scelta europea dell’Ucraina come un fatto unilaterale.
Putin ha usato il forum telefonico per lanciare una delle sue periodiche disquisizioni sull’identità nazionale ucraina e il suo rapporto con l’identità russa. Il suo messaggio al pubblico d’entrambi i paesi sostiene ogni volta che l’identità ucraina è praticamente indistinguibile da quella russa e che siano completamente sovrapponibili. Ha ammesso che la questione potesse essere discussa, ma “non ora”, ha riferito Putin al suo pubblico: “Gli ucraini sono molto vicini a noi. Non vedo affatto differenze tra ucraini e russi, e ritengo che nel complesso siamo un unico popolo [narod odin]”.
Contraddicendo la prima parte del suo messaggio, Putin continua sostenendo che i “russi” (Russkie) in Ucraina siano distinguibili dopo tutto dagli ucraini, e che necessitino di una speciale protezione per un tale carattere distintivo. Definisce i russi in Ucraina negli stessi termini, infinitamente elastici, con cui aveva precedentemente definito il “ Mondo russo”. Così, il governo ucraino dovrebbe “rispettare i legittimi diritti dei russi che vivono in Ucraina, oltre quelli che si considerano russi indipendentemente da ciò che manifestano i loro documenti personali, coloro che considerano il russo come la loro lingua madre, la cultura russa come la loro cultura originaria, ma anche coloro che si sentono legati indissolubilmente con la Russia”. Tali osservazioni sono destinate a influenzare i dibattiti interni ucraini nella revisione della Costituzione. Le osservazioni di Putin presagiscono anche il tenore delle iniziative diplomatiche russe in tale contesto. Il 22 aprile, il ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, ha avvertito il presidente e il governo ucraino contro il ricorso ad una “Ucrainizzazione”.
Negare il distinguo nazionale dei russi, pur sottolineando che ci sono delle divergenze tra russi e ucraini, sono due tesi contraddittorie; ma formano due lati di un coerente insieme dei termini politici del Cremlino. La prima tesi si propone di ritrarre lo Stato nazionale ucraino come inutile, innaturale e temporaneo, e, in ultima analisi, predestinato ad una fusione con lo Stato russo; la seconda tesi, al contrario, cerca di rivendicare un “diritto” dello Stato russo per “proteggere” una gamma potenzialmente infinita di cittadini ucraini, con diritti di “riguardo”per la Russia, aprendo potenzialmente la strada per le revisioni delle frontiere, in linea con la Nuova Russia e i concetti del Mondo russo. Putin aveva smesso d’usare questi termini specifici pubblicamente dall’agosto 2014, ma i suoi ultimi commenti al telefono hanno trasmesso ancora il vecchio messaggio.
Rivolgendosi alla popolazione russa e, implicitamente all’ucraina, il presidente russo Vladimir Putin ha silurato l’accordo Minsk Due, con una piccola riparazione alla falla: “Io dico a titolo definitivo e inequivocabile: non ci sono forze russe in Ucraina”. Al di là della intelligence degli Stati Uniti, della NATO, dell’Ucraina, della Germania, della Francia, dei giornalisti indipendenti e non, delle dichiarazioni dei soldati al fronte, degli ufficiali coinvolti e degli stessi abitanti dei luoghi occupati dai separatisti, la negazione continua di Putin equivale a un “nessun accordo” sotto Minsk Due.
In effetti, Mosca ha progettato l’accordo del 12 febbraio e il conseguente “processo di Minsk Due” come un compromesso: l’Ucraina avrebbe legittimato la secessione di Donetsk e Lugansk in cambio di un promesso ritiro delle “forze straniere” dalla zona. Le forze russe stabilite in Donetsk e Lugansk, hanno tutte le bandiere e le insegne delle due repubbliche DPR e LPR. In sintonia con tutti gli altri funzionari russi, Putin sostiene che non c’è nulla di russo da ritirare dall’Ucraina.
Tuttavia, Putin continua a chiedere all’Ucraina d’accettare de facto la secessione di Donetsk e Lugansk, che la Russia ha inquadrato come parte del trattato Minsk Due: “E’ possibile mettere a punto alcuni elementi per ripristinare un qualche tipo di situazione del quadro politico comune con l’Ucraina; ma in ultima analisi, il diritto di pronunciare la parola definitiva e a quali condizioni, spetta a chi vive in quei territori. Questo dipenderà in larga misura dalla flessibilità e dalla saggezza della leadership ucraina”.
Con questo, l’armata delle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk (DPR, LPR) si riserva il diritto di piena secessione con il diritto di decidere la data per la formalizzazione dell’atto; mentre la Russia avrebbe il controllo della forza militare. Il “quadro politico comune” implica che Donetsk e Lugansk siano istituzioni politiche dell’Ucraina in grado di brandire poteri di blocco politico ed economico, oltre che ricevere i sussidi sociali; mentre sarebbero separate dall’Ucraina sotto tutti gli altri aspetti, come prevede l’accordo di Minsk Due.
Durante il periodo di transizione, Putin vuole che l’Ucraina paghi gli stipendi, le pensioni e le altre prestazioni sociali ai residenti del territorio occupato dai russi. Il criterio principale per il quale Mosca riconosce “l’unità” dell’Ucraina, (un termine emergente operativo invece che “integrità territoriale”) è che Kiev finanzi il bilancio sociale “della popolazione” delle repubbliche”. A quanto pare, per la prima volta dall’inizio della guerra, Putin si è azzardato a suggerire l’identità del Donbas come una “piccola patria”: “So che i residenti del Donbas sono grandi patrioti della loro piccola “madrepatria” (Rodina)”. Il sottotesto sembra riconoscere la sconfitta della più ambiziosa idea russa della Nuova Russia, almeno in questa fase. Il messaggio inviato a Donetsk e Lugansk, tuttavia, è “lontano dall’Ucraina” ma “non ancora in Russia”.
Alla domanda, in una intervista alla fine dell’evento televisivo, se Putin avrebbe preso in considerazione il conferimento ufficiale alla Russia delle due repubbliche DPR-LPR, ha spiegato che la Russia lo avrebbe fatto in tempi diversi: “Preferirei non affrontarlo adesso questo tema. Si valuterà la questione a seconda di come le cose si svilupperanno in termini pratici”. Per quanto riguarda se ci sarebbe stata una guerra su vasta scala, il presidente ha risposto: “Io procedo dal presupposto che questo possa essere impossibile”. Tutto sembra ancora essere una questione di praticità, il Cremlino si riserva implicitamente la possibilità di riprendere delle limitate operazioni offensive come quelle che hanno già costretto l’Ucraina a firmare gli accordi di armistizio; ma Mosca considera tali accordi vincolanti solo per l’Ucraina, non per la Russia e DPR-LPR.
Al di là dei termini specifici e al di là anche delle evidenti lacune degli accordi di Minsk Due, sono le ambiguità che lasciano spazio a delle grosse interpretazioni, le quali minacciano l’Ucraina più di una guerra russa e potenzialmente più di Minsks Due. Putin aveva alluso a questa possibilità subito dopo la firma di Minsk Due, mentre il “presidente della DPR” Aleksandr Zakharchenko, aveva minacciato l’Ucraina con tanti “Minsk” dopo un colloquio con Putin.
Data la superiorità militare, il rappacificamento russo guidato dalla Germania in Europa, l’uscita di Washington dal formato della negoziazione e dal successo paralizzante di Mosca nei confronti dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in missione di monitoraggio (OSCE) in Ucraina, la Russia può imporre la sua interpretazione delle clausole militari del contratto di Minsk Due, quasi per impostazione predefinita. La sottoscrizione tedesca e francese di Minsk Due e, in allegato la dichiarazione del “ Gruppo Normandia” oltre le successive riunioni hanno semplicemente portato a santificare le interpretazioni unilaterali della Russia con le loro conseguenti violazioni. La presa di Debaltseve dalle unità militari d’élite russe, dopo l’armistizio, senza che i “garanti”, Berlino e Parigi, applicassero delle conseguenze, ne è un esempio clamoroso.
L’accordo di Minsk Due era, fin dall’inizio, un illusorio accordo transattivo: mentre l’Ucraina doveva legittimare la secessione di Donetsk e Lugansk, c’era solo la promessa russa che avrebbe ritirato le sue forze dal territorio, questa era palesemente una falsa promessa. Le clausole militari, come è scritto nell’accordo, consentono alle forze russe di rimanere indefinitamente, senza che tecnicamente possano violare l’accordo di Minsk Due (o uno qualsiasi dei successivi documenti accessori). Tale inganno doveva indurre Kiev a legittimare l’esistenza (non ancora ufficialmente) la secessione a titolo definitivo delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk; ma è stato anche lo scopo di facilitare l’avallo tedesco-francese di Minsk Due, come un apparente compromesso.
Putin ora ha terminato l’affare. Le sue osservazioni, molto pubblicizzate irrevocabilmente, sostengono che la Russia non abbia forze dispiegate in Ucraina, quindi niente da ritirare, mentre si riserva il diritto di una secessione ufficiale completa delle due repubbliche, a seconda delle circostanze, comprese le opportunità militari. L’interpretazione di Putin di Minsk Due è insindacabile, proprio per il suo carattere unilaterale in una situazione di superiorità militare, e dimostra i pericoli per l’Ucraina, perché piuttosto che offrire protezione, gli ha aperto una trappola.
Il presidente Petro Poroshenko e la Verkhovna Rada, però, hanno trovato una via d’uscita da questa trappola con una normativa approvata il 17 marzo, che dovrebbe (se verrà attuata) escludere qualsiasi legittimazione politica delle DPR-LPR. Dopo le ultime dichiarazioni di Putin, l’Ucraina ha tutte le giustificazioni per arrestare il processo strisciante di legittimazione delle DPR-LPR; mentre la diplomazia tedesca non ha più alcuna scusa per sperare nelle “elezioni” dei territori delle DPR e LPR benedette dall’OSCE.

G. Bedris

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La Russia sta pagando dazio

Questa settimana, il 21 aprile, il primo ministro russo ed ex presidente Dmitry Medvedev, ha trascorso diverse ore per presentare alla Duma (la camera bassa del parlamento), come previsto dalla Costituzione, il rapporto annuale del governo sulle politiche e le realizzazioni del 2014. Secondo Medvedev, la Russia è sotto assedio e “nessuno si dovrebbe fare illusioni, l’attuale crisi economica non è transitoria”; se i prezzi del petrolio rimarranno bassi e la “pressione economica esterna continua, saremo tutti costretti a fare sacrifici”. Medvedev ha definito come “unica” l’attuale situazione con una combinazione di sfide senza precedenti: “L’aggiunta della Crimea alla Federazione Russa non ha lasciato un solo settore delle nostre istituzioni dell’economia inalterate finanziariamente, sono state private ​​del credito estero, mentre l’industria non può importare tecnologie”. Secondo Medvedev, nel 2014 le sanzioni sono costate alla Russia circa 27 miliardi di dollari o l’1,5 per cento del PIL; “nel 2015, le perdite possono essere molte volte più gravi”.
Secondo Medvedev, il governo ha affrontato con successo le conseguenze immediate della crisi economica: l’inflazione sembra essere stata lentamente bloccata, il rublo si è un poco stabilizzato, dopo la drammatica svalutazione dello scorso dicembre, e di fatto c’è un piccolo rafforzamento, mentre la produzione industriale, non è caduta così ripidamente come si temeva all’inizio. Il ministero dello sviluppo economico prevede per il 2015, una depressione economica globale di circa il 3 per cento del PIL, ma entro il 2016 è prevista una piccola ripresa economica. L’industria della difesa, secondo Medvedev, è in buona forma e sta producendo decine di migliaia di nuove armi (la notizia è stata accolta con un’ovazione dai deputati della Duma). Le prospettive a lungo termine non sono rosee: le entrate di bilancio sono cadute, mentre le spese sono aumentate. I russi saranno costretti ad adattarsi ad una nuova realtà, Medvedev ritiene che le difficoltà possano perseverare. Il primo ministro ha insistito: “La forte pressione economica esterna sulla Russia è il risultato della decisione politica del 2014, l’annessione della Crimea, che era la corretta e l’unica scelta possibile. Noi tutti, l’intera nazione, il governo e il parlamento l’abbiamo sostenuta comprendendo pienamente le sue possibili conseguenze e ora, insieme, siamo responsabili di risolverle, nonché mantenere la stabilità sociale e lo sviluppo – ha continuato – Il 2014 ha portato la Russia in un’epoca nuova, è sicuramente l’anno della Crimea; la stragrande maggioranza delle persone credeva che si trattasse solo dell’annessione; ma nonostante la formalità dei confini post-sovietici, la Crimea aveva sempre condiviso le nostre vittorie, il nostro orgoglio e i disagi. L’annessione della Crimea, può essere paragonata al ritorno di Hong Kong alla Cina e alla riunificazione della Germania. La presente pressione economica e politica estera senza precedenti, è il risultato della nostra collettiva decisione, per la quale tutti avevamo capito che non potevamo fare altrimenti, non importava il costo”. Il costo d’integrare la Crimea nelle Federazione Russa sarà davvero elevato: la regione ha bisogno di sussidi e di massicci investimenti infrastrutturali, mentre il resto della Russia rimarrà impantanato nella recessione. Medvedev e il suo governo sono direttamente responsabili del benessere economico russo, e, a quanto pare il primo ministro sta passando di mano la patata bollente. Ha chiesto la inequivocabile solidarietà, l’austerità e la stabilità sociale di fronte ai nemici esterni, guidati dagli Stati Uniti, che presumibilmente vogliono minare l’orgoglio dello Stato russo e sono la principale ragione delle calamità presenti e future.
Naturalmente, non tutti in Russia condividono la sciovinismo ufficiale connesso alla Crimea, e l’ardente tentativo patriottico di Medvedev ha incontrato qualche risposta. Boris Vishnevsky, del partito liberale Yabloko, un membro dell’opposizione di San Pietroburgo, ha accusato Medvedev d’essersi sbagliato sulla totale unanimità del sostegno popolare per l’annessione della Crimea. Una minoranza significativa di russi (20-25 per cento della popolazione) non ha ceduto alla propaganda di viziosa dello Stato e non supporta il Cremlino. I deputati del partito Yabloko di San Pietroburgo avevano denunciato pubblicamente il sequestro della Crimea come illegale e non valido. Nel mese di marzo 2014, secondo Vishnevsky, Medvedev non aveva detto nulla della possibile impennata dei prezzi, e non ha senso oggi invocare la nozione di responsabilità collettiva di tutta la nazione per una decisione sbagliata presa da alcuni uomini del Cremlino a porte chiuse.
Questa settimana, il presidente Vladimir Putin ha approvato il bilancio rivisto per l’anno in corso (2015). La spesa dello Stato è stata tagliata, i ricavi previsti diminuiranno di circa 50 miliardi di dollari per i prezzi del petrolio più bassi. Il deficit del bilancio federale è previsto intorno ai 55 miliardi di dollari. Sotto il regime di sanzioni, il governo russo non può ottenere prestiti esteri, mentre i crediti interni sono molto limitati. La maggior parte del deficit sarà coperto dall’utilizzo del fondo di riserva sovrano, creato durante gli anni. Allo stato attuale, il fondo di riserva è pari a 90 miliardi di dollari. Ci sono attualmente gravi discussioni tra gli analisti finanziari delle banche leader russe che ruotano intorno alla questione di quando si potrebbe esaurire il fondo di riserva, con lo spettro di un tracollo finanziario. Se il prezzo del petrolio rimane basso e il rublo rimane forte, il deficit di bilancio potrebbe aumentare di un ulteriore 12-13 miliardi di dollari. Molte regioni russe sono in procinto di fallire e stanno chiedendo dei fondi dalle riserve. Il fondo di riserva sovrano potrebbe essere esaurito entro la fine del 2015, secondo alcuni analisti, o durare fino alla metà del 2016, secondo altri, quando il prezzo del petrolio potrebbe significativamente risalire e Mosca potrebbe essere in grado di rinnovare i prestiti esteri.
In un clima di crescente tensione interna e imprevedibilità economico/finanziaria, il governo russo sta amplificando la sua retorica anti-occidentale. Il mantenimento di una mentalità d’assedio e raffigurare gli Stati Uniti e l’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico (NATO) come nemici alle porte, è considerata apparentemente essenziale per deviare il pubblico russo dalla dura realtà economica e mantenere stabile il regime.

G. Bedris

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Il sogno infranto dell’ordine europeo

Fino a poco tempo, la maggior parte degli europei riteneva che l’ordine di sicurezza post Guerra Fredda fosse un appello universale e un modello per il resto del mondo, convinzione non sorprendente, se si considera che l’Europa ha spesso giocato un ruolo centrale negli affari mondiali. Per gran parte degli ultimi tre secoli, l’assetto europeo era ordine, un mondo di prodotti di interessi, ambizioni e rivalità degli imperi del continente. E, anche durante la Guerra Fredda, quando le nuove superpotenze stavano sui lati opposti del continente, la lotta centrale era tra le due ideologie europee: il capitalismo democratico, il comunismo e il controllo delle terre europee di mezzo.
Tuttavia, non emerse un modello spiccatamente europeo fino al 1989, quando ci fu una svolta radicale rispetto alle assunzioni e alle pratiche che esistevano altrove. Nel giugno del 1989, gli autoritari comunisti in Cina schiacciarono il nascente movimento pro-democrazia del paese; quello stesso anno, gli autoritari comunisti in Europa hanno dato modo, senza combattere, che cadesse il muro di Berlino. Per i leader intellettuali in Europa questo momento significava l’inizio di un nuovo tipo di pace, più che la conclusione della guerra fredda.
– Quello che si è concluso nel 1989 – scrisse alcuni anni dopo il diplomatico britannico Robert Cooper – non è stata solo la guerra fredda o anche, in senso formale, la seconda guerra mondiale, ma i sistemi politici di tre secoli: l’equilibrio di potere e la voglia imperiale.
In effetti, la guerra fredda si è conclusa senza un accordo di pace o una parata; al momento, sembrava una vittoria per entrambe le parti, mentre il nuovo sistema europeo si lavava le mani dei vecchi concetti di sovranità. I leader continentali non erano interessati a creare nuovi Stati, come lo erano dopo la prima guerra mondiale. Né c’erano persone che cercavano di garantire quelli esistenti, come successe subito dopo la seconda guerra mondiale; ma invece, hanno cercato di cambiare la natura dei confini stessi favorendo la libera circolazione dei capitali, persone, merci e idee. Le mappe politiche caddero e furono etichettate come fuori moda; presero il loro posto i grafici economici. I diplomatici a Bruxelles cominciarono a vedere l’interdipendenza economica, le istituzioni giuridiche internazionali e, l’interferenza reciproca tra di loro con la reciproca politica interna come fonte primaria di sicurezza. Più tardi, sulla scia dei fallimenti americani in Afghanistan e in Iraq, la forza militare perse la sua lucentezza.
Gli europei erano consapevoli che questo era un ordine caratteristico, ma erano anche convinti che avrebbe potuto espandersi ben oltre l’Unione europea, in Turchia, Russia e nei paesi dell’Europa orientale. S’aspettavano che il loro modello si diffondesse naturalmente, sia attraverso l’allargamento della NATO, l’estensione dei legami comunitari con gli Stati periferici dell’Unione, o l’ascesa di istituzioni globali sancite dalle norme europee, come la Corte penale internazionale e l’Organizzazione mondiale del commercio. Fino a quando i cittadini erano liberi di scegliere liberamente, il pensiero è lievitato, lasciando che i governi decidessero d’abbracciare la via europea.
La Russia mandò in frantumi questo assunto l’anno scorso, quando invase la Crimea. Di fronte alla volontà russa di conservare la sua influenza nello spazio post-sovietico attraverso l’uso della forza, il soft power dell’UE ha dimostrato di essere davvero molto morbido. La Turchia, insieme a tre delle più grandi democrazie di tutto il mondo Brasile, India e Indonesia, hanno rifiutato d’imporre sanzioni contro la Russia insieme all’Unione europea e agli Stati Uniti. La Cina ha preferito vedere l’annessione russa della Crimea come un naturale adeguamento dei confini, piuttosto che una sfida all’ordine internazionale. Bruxelles e Washington, nel frattempo, hanno imposto significative sanzioni; ma queste misure hanno fatto ben poco per dissuadere Mosca dal tenere la sua linea.
La crisi Ucraina ha costretto gli europei ad affrontare il fatto che il loro modello politico non fosse attraente per tutti, certamente non per tutti nel proprio quartiere. La loro scossa ricorda ciò che si sentiva dai dirigenti giapponesi alla fine dello scorso decennio, quando si resero conto che, anche se producevano i telefoni cellulari più avanzati del mondo, non potevano venderli all’estero. I consumatori altrove semplicemente non erano pronti, in quanto i dispositivi giapponesi facevano affidamento su tecnologie avanzate, come la terza generazione di piattaforme di e-commerce, che non erano state ampiamente utilizzate in altri paesi. I telefoni cellulari giapponesi, in altre parole, erano troppo perfetti per riuscire.
Alcuni soprannominarono il fenomeno del Giappone la “sindrome Galápagos”, riferendosi all’osservazione di Charles Darwin che gli animali che vivono nelle remote isole Galapagos, con la loro unica flora e fauna, avevano sviluppato delle speciali caratteristiche non replicabili altrove. Più o meno lo stesso si potrebbe dire oggi in Europa, che si è evoluta in un ecosistema protetto dalla più ruvida e ampia realtà del mondo, ed è quindi diventata troppo avanzata e particolare perché gli altri la potessero seguire.
Mentre la crisi Ucraina si trascina, gli europei devono abbandonare i loro sogni di trasformare gli habitat stranieri e invece devono concentrarsi sulla loro propria protezione sempre più in pericolo. Il compito non sarà facile. Sarà necessaria una de-escalation delle tensioni con Mosca e dei calcolati compromessi, come ad esempio accettando gli sforzi d’integrazione regionali russi come legittimi. Riconoscere che l’ordine europeo ha dei limiti, tuttavia, è di gran lunga preferibile che vederlo indebolire.
Anche se l’effetto immediato della crisi ucraina era di portare l’Europa e gli Stati Uniti più vicini, il processo di formulazione di una risposta è stato esposto a profonde divisioni tra di loro. Ci sono delle domande persistenti, per esempio, sulle garanzie della sicurezza europea, nonostante le ripetute assicurazioni da parte degli Stati Uniti e del ​​presidente Barack Obama. Alla Conferenza sulla sicurezza del 2015, di Monaco di Baviera, un ufficiale tedesco di alto livello si lamentò affermando che gli Stati Uniti non fossero affidabili: “Quando la posta in gioco è così bassa per gli americani non si sa mai dove finirà Washington. Potrebbe intensificare le sanzioni e usare la forza in Ucraina; ma nel giro di pochi anni, potrebbe ripristinare il rapporto e garantirsi la cooperazione russa su una questione non collegata, come lo Stato islamico”.
Alla base di questa incertezza tra gli europei c’è la sensazione che la loro sicurezza non sia più al centro della strategia americana, come è stato durante la Guerra Fredda. L’Europa, dopo tutto, è solo uno dei tanti teatri in cui Washington ha degli interessi, probabilmente non è più il più importante. I funzionari americani, da parte loro, temono sempre più che i paesi europei possano perdere gradualmente le loro capacità militari e la loro volontà politica, abbandonando l’alleanza con gli Stati Uniti per pacificare la porta accanto, quella del bullo. Gli americani sono stati particolarmente scossi, per esempio, nel vedere che anche in seguito all’invasione russa della Crimea, molti governi europei, compresi i tedeschi e gli inglesi, avessero scelto di compiere ulteriori tagli ai loro bilanci militari. Un sondaggio del 2014 della WIN / Gallup internazionale, ha rafforzato i dubbi d’oltre oceano sul pubblico europeo: solo il 29 per cento dei cittadini francesi intervistati, il 27 per cento dei cittadini britannici e il 18 per cento dei cittadini tedeschi hanno sostenuto che erano disposti a combattere per il loro paese (il 68 per cento degli italiani ha persino affermato che si sarebbe addirittura rifiutato). Come l’allora segretario alla difesa americana, Robert Gates, aveva sostenuto nel 2010: “La demilitarizzazione europea, dove vaste aree della classe pubblica e politica in generale sono contrari alla forza militare ed ai rischi che ne derivano, è passata da una benedizione del 20 ° secolo, ad un impedimento per il raggiungimento della vera sicurezza e la pace duratura nel 21°”.
Questi atteggiamenti riflettono una divisione filosofica ancora più profonda su due concorrenti narrazioni circa la fine della Guerra Fredda. Per la maggior parte degli americani, è stata la superiorità militare ed economica dell’Occidente che ha reso inevitabile la vittoria e la corsa agli armamenti del 1980 che ha spinto il sistema sovietico oltre il bordo; ma per molti europei, sono stati i valori liberali europei che hanno vinto alla fine della giornata, e che hanno affrettato la fine del conflitto fu la politica di miglioramento delle relazioni con l’Unione Sovietica e dei suoi alleati.
L’Occidente ha bisogno di una strategia per la Russia che permetta la cooperazione, senza rifuggire dal confronto. Queste divisioni colorate e le discussioni politiche di oggi sono modi prevedibili. Prendiamo la questione se l’Europa e gli Stati Uniti dovessero armare l’Ucraina nella lotta in corso contro i ribelli sostenuti dai russi nella parte orientale del paese: se l’obiettivo primario è quello d’aumentare il prezzo del revisionismo russo, la mossa ha un senso, anche se il conflitto s’intensifica di conseguenza; ma se l’obiettivo principale è quello di proteggere la modalità di condotta distintiva dell’UE e preservare l’unità dell’Unione europea nei confronti della Russia, serve solo una soluzione politica ordinata. Questo spiega il motivo per cui molti membri sono a sostegno della politica estera degli Stati Uniti di armare l’esercito ucraino, mentre la maggior parte dei loro colleghi europei si oppone. Anche in Polonia, dove la maggior parte dei cittadini pensa che la crisi ucraina presenti un pericolo chiaro e presente per la loro sicurezza, la maggioranza non è favorevole ad armare l’Ucraina, secondo un sondaggio condotto dall’Istituto di Varsavia degli affari pubblici lo scorso febbraio.
E’ sempre più realistico aspettarsi che la crisi ucraina modifichi il DNA dell’Europa, almeno nel breve termine: né il pubblico europeo né l’élite dell’UE sono pronti ad abbandonare la speranza che l’interdipendenza economica resti la fonte più redditizia della sicurezza europea. Anche se le garanzie di sicurezza degli Stati Uniti sono fondamentali per garantire che sopravviva l’ordine europeo, minacciano anche la sua integrità. Se l’Unione europea collaborasse con gli Stati Uniti per armare l’Ucraina, si suggerirebbe che sarebbe fallita la mediazione pacifica.
L’Europa si trova in questa situazione per un motivo semplice: negli anni che hanno preceduto la crisi Ucraina, i governi occidentali hanno fondamentalmente frainteso la Russia.
Per oltre un decennio, il regime di Putin è stato alla ricerca di un nuovo ordine, che potesse garantire la sua sopravvivenza a lungo termine. Nel 1943, Joseph Stalin sciolse l’Internazionale Comunista (nota anche come il Comintern), un’organizzazione dedicata alla diffusione del comunismo internazionale, al fine di convincere Franklin Roosevelt e Winston Churchill che la sua priorità fosse stata la sconfitta della Germania nazista, una rivoluzione non globale. Putin spera che l’Occidente possa fare un’overture simile per arrestare la sua promozione democratica, ha chiesto una garanzia che l’occidente non avrebbe appoggiato le proteste occidentali per le strade di Minsk o di Mosca; ma Bruxelles e Washington non possono sciogliere ciò che non esiste; indipendentemente da ciò che Putin e i suoi consiglieri potrebbero credere, l’ondata di proteste globali che ha spazzato il mondo negli ultimi anni, è il risultato di cambiamenti culturali, politici e tecnologici. L’ex consigliere di sicurezza nazionale americano Zbigniew Brzezinski, lo ha definito “il risveglio politico globale” è una vera e propria tendenza, non il nome in codice di una operazione della CIA.
Le potenze occidentali hanno anche giudicato male la loro capacità di costringere Putin con le sanzioni e l’isolamento diplomatico. Le sanzioni non hanno modificato il comportamento della Russia in Ucraina orientale; alcuni esperti ritengono che qualsiasi sanzione finanziaria non potrebbe essere abbastanza grande per convincere Mosca a restituire la Crimea. Anche se le sanzioni hanno contribuito agli attuali problemi finanziari russi, ci sono poche prove che possano aver indebolito la presa al potere di Putin. Ma anche se il regime di Putin dovesse cadere, è letteralmente improbabile che possa apparire una democrazia filo-occidentale.
– E’ impossibile dire quando il sistema cadrà – ha affermato l’ex consigliere di Putin, Gleb Pavlovsky, nel 2013 – ma quando cadrà. . . quello che lo sostituirà sarà una copia di questo.
A dire il vero, le sanzioni si sono rivelate di fondamentale importanza nell’unire i paesi occidentali contro l’aggressione di Putin; ma aver danneggiato l’economia russa ha anche minato gli obiettivi a lungo termine dell’Europa. La politica di Mosca in Ucraina non rappresenta un revival dell’imperialismo russo; è l’espressione dell’isolazionismo del Cremlino. Tagliando fuori l’economia russa, le sanzioni hanno servito lo sforzo di Putin di limitare l’esposizione della Russia verso l’Occidente, dando la copertura al regime per limitare Internet, frenare la proprietà straniera dei mezzi di comunicazione, rimpatriare il denaro russo dalle banche occidentali e viaggiare poco all’estero. Hanno anche oscurato la sua incapacità di far crescere l’economia.
Peggio di tutto, le sanzioni hanno incoraggiato la Russia a competere con l’Occidente per il dominio militare, piuttosto che in termini economici, un’arena in cui il vantaggio dell’Unione era di gran lunga maggiore. Uno dei grandi successi dell’Unione Europea degli ultimi dieci anni è stata la sua politica di vicinato, che mirava a disegnare accordi economici e politici alla sua periferia con accordi economici e politici. Anche se la politica difficilmente ha trasformato i paesi, ha di fatto influenzato la politica estera russa. Dopo la rivoluzione arancione, la Russia ha cercato di gareggiare per l’influenza in Ucraina e in altri paesi ex sovietici, offrendo incentivi simili a quelli europei, come gli accordi commerciali e i pacchetti di aiuti. Anche nell’autunno del 2013, Mosca non si mosse per occupare l’Ucraina prima d’averla acquistata, offrendo al governo dell’allora presidente Viktor Yanukovich, un prestito multimiliardario. Ma ora che l’economia russa è ancora meno competitiva, per i bassi prezzi del petrolio e il peso delle sanzioni, Mosca sarà più incline a espandere la sua influenza con l’avventurismo militare. L’Europa non è riuscita a riconoscere ciò che rappresenti in realtà l’Unione economica eurasiatica.
Nel definire la sua politica per la Russia, l’Europa deve solo affrontare scelte difficili. Non è realistico aspettarsi che nel prossimo anno l’UE si possa trasformare in una grande potenza militare, come è anche improbabile che le sanzioni da sole possano cambiare la politica del Cremlino nel breve periodo, o che il sostegno unanime delle sanzioni possano essere sostenute a lungo termine, soprattutto se il conflitto ucraino si dovesse placare in un qualche modo. Nel proseguo l’Europa dovrà trovare una politica che non cerchi di trasformare la Russia in una democrazia stile occidentale, ma che costringa il paese in una posizione con la quale l’Occidente possa convivere. Il contenimento stile guerra fredda, tuttavia, non è sufficiente; la Russia costituisce una minaccia non solo per l’integrità territoriale degli Stati membri dell’UE, ma anche per l’esistenza stessa dell’Unione. Già, ha iniziato l’infiltrazione politica europea per minare l’unità europea, principalmente sostenendo i leader politici amici della Russia e ostili all’Unione Europea.
A guardia contro questa minaccia si richiede che gli europei facciano una netta distinzione tra i due diversi tipi di istituzioni. Le prime sono quelle, come il Consiglio d’Europa e l’Unione europea, che incarnano i valori europei e quindi non hanno posto per i regimi autoritari, come Putin, le seconde sono quelle, come l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa e quella delle Nazioni Unite, che possono colmare il divario in Europa con i governi illiberali. I leader europei hanno bisogno di rendere le prime più disciplinate e rigide e le seconde più flessibili e accomodanti.
Prendiamo il Consiglio d’Europa, che è un privilegio teoricamente riservato alle democrazie, con il corpo ha il compito di promuovere i diritti umani e lo Stato di diritto, ma l’adesione di Mosca ha in realtà fatto molto poco per liberalizzare la Russia e ha minato la credibilità del Consiglio. Distribuendo l’appartenenza ad altri paesi con regimi repressivi, come l’Azerbaigian, è riuscito in modo simile ad accelerare le loro transizioni democratiche. Dopo il 2010 le elezioni parlamentari in Azerbaigian, per esempio, il Consiglio non è riuscito a rilasciare una dichiarazione critica in risposta alle diffuse segnalazioni di violazioni del giusto processo. L’organizzazione ora serve come un veicolo pratico che permette ai regimi autoritari d’apparire democratici all’estero, mentre rimane operativa la soppressione dei diritti umani nel paese. Solo dando dei calci ai suoi membri illiberali il Consiglio può davvero difendere i suoi valori fondanti.
La decontaminazione basata sui valori delle istituzioni, eliminando l’influenza russa, è molto urgente vista la crescente popolarità del modello di governo di Putin in alcuni Stati membri dell’Europa orientale dell’UE e gli sforzi del Cremlino per sostenere i partiti, tra cui gli euro -scettici di sinistra, come Syriza in Grecia, e quelli di destra, come il Fronte Nazionale in Francia. Queste mosse, progettate per rispecchiare il sostegno occidentale ai movimenti di opposizione nelle elezioni in Russia, inizialmente hanno funzionato come una sorta di schiaffo in faccia; ma ora minacciano seriamente lo sfilacciamento dell’unità europea. L’anno scorso, il primo ministro ungherese Viktor Orban ha parlato pubblicamente di “modi di divisione con i dogmi dell’Europa occidentale, rendendoci indipendenti da loro”. Ha continuato a dichiarare la sua intenzione di voler trasformare l’Ungheria in uno “stato illiberale”, elencando la Russia come esempio di un paese che, come la Cina e la Turchia, hanno un sistema di governo che non è né occidentale né liberale, ma è “capace di farci concorrenza”. Per evitare che altri membri fragili dell’UE, come Cipro e la Grecia, cadano preda di tangenti russe o ricatti, l’Unione ha bisogno d’aiutarli ad affrontare le loro crisi economiche continuando a fornire prestiti e altre forme di sostegno finanziario. Essa deve inoltre spingere gli Stati membri a rendersi conto che nel crescente conflitto tra Bruxelles e Mosca, devono anche scegliere da che parte vogliono stare. Allo stato attuale, i regimi illiberali come l’Ungheria sono il meglio dei due mondi: i fondi UE li sostengono, ma beneficiano anche della retorica anti-UE e di relazioni particolari con Mosca, quindi hanno pochi incentivi a cambiare rotta.
L’Europa e gli Stati Uniti non potranno mai riconoscere l’annessione russa della Crimea, così come non potevano riconoscere l’occupazione sovietica degli Stati baltici durante la Guerra Fredda. Avranno bisogno di mantenere in vigore le sanzioni, in quanto rimangono l’unico strumento a disposizione in grado di mantenere l’unità europea e di domare la volontà di Mosca di diffondere il conflitto in corso in altre parti dell’Ucraina; ma le sanzioni da sole, guidate da una speranza mal riposta che la Russia un giorno possa invertire la rotta e ritornare la Crimea, non sono sufficienti.
L’Occidente ha bisogno di una strategia a lungo termine con la Russia che consenta di cooperare, ma non rifuggire dal confronto. La crisi è iniziata a causa di un braccio di ferro sull’Ucraina se la stessa avesse dovuto partecipare al partenariato orientale, un programma europeo volto ad integrare i paesi dell’Europa orientale nell’economia dell’UE, o unirsi nell’Unione economica eurasiatica (EEU), un blocco commerciale concorrente, che Mosca ha stabilito con la Bielorussia e Kazakhstan lo scorso gennaio. Ironia della sorte, il modo migliore per stabilire un nuovo rapporto di lavoro con la Russia sarà attraverso un approccio a questo progetto russo, che alti funzionari europei, hanno pubblicamente sostenuto, tra cui il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente francese François Hollande.
La maggior parte degli europei concorda sul fatto che l’UEE è un progetto economico imperfetto, fatto di più per servire le ambizioni geostrategiche russe che portare prosperità a paesi come l’Armenia e il Kirghizistan. Tale scelta, però, appartiene ai governi sovrani. E, se l’Unione europea riconosce il diritto della Bielorussia e del Kazakistan di partecipare a un progetto d’integrazione russo, Mosca dovrebbe riconoscere il diritto della Georgia e della Moldavia, ad esempio, di scegliere di aderire o di non aderire.
L’Europa non è riuscita a riconoscere ciò che l’EEU realmente rappresenta. A dire il vero, Mosca ha istituito il sindacato per creare una sfida geopolitica a Bruxelles, ma ha cercato di farlo impegnandosi con altri paesi a condizioni di legami economici, piuttosto che con una competizione militare con l’UE. Cosa c’è di più, l’UEE è inclusiva, in gran parte priva di affermazioni russe di nazionalismo etnico, apertamente impegnata al concetto di interdipendenza economica. E in virtù del loro valore di puntellare un’iniziativa russa, i membri del sindacato hanno l’orecchio di Mosca. In realtà, la Bielorussia e il Kazakistan, grazie al loro potere di veto, potrebbero avere il colpo migliore per domare l’aggressione russa in Ucraina orientale. In breve, l’UEE è esattamente il tipo di progetto che Bruxelles potrebbe essersi inventata. E’ l’unica istituzione in grado di ridurre la dipendenza di Mosca sulla pressione militare e sulla retorica nazionalista; ma invece di riconoscere la propria influenza sull’EEU, Bruxelles ha interpretato l’imitazione di Mosca come un affronto, perdendo un’opportunità fondamentale per moderare il conflitto in Ucraina.
Impegnarsi con la Russia nei suoi piani per l’EEU sarebbe stato più facile prima della crisi ucraina, ma è tutt’altro che impossibile ora. Una overture dell’UE alla EEU, come un invito a stabilire relazioni diplomatiche formali tra le due organizzazioni, invierebbe un chiaro segnale che Bruxelles riconosce il diritto di Mosca di un proprio processo d’integrazione, ma si oppone con fermezza al diritto russo sulle sfere d’influenza. Questo avrebbe posto le basi per una competizione pacifica tra due progetti d’integrazione, sulla base di diverse filosofie; ma almeno nominalmente volti a perseguire obiettivi simili.
Legittimando l’EEU sarebbe anche mettere un cuneo tra i due grandi poteri autoritari del mondo, Cina e Russia, che sono cresciuti pericolosamente vicini in questi ultimi anni, con un probabile risultato di rafforzare il partner in declino a spese del nascente. In effetti, il ruolo ampliato di Pechino in Europa dell’Est è stato uno dei risultati meno notato e più indiretto della crisi ucraina. Mentre Bruxelles e Washington hanno sanzionato Mosca per la Crimea, il presidente cinese Xi Jinping, ha lanciato due ambiziose iniziative volte a ristrutturare l’economia eurasiatica: la cosiddetta Cintura della Seta economica, un programma d’investimenti infrastrutturali e commerciali che si estenderà da Bangkok a Budapest, incentrato sulle vie navigabili tra il Mar Cinese Meridionale e il Mediterraneo. I due progetti, che i funzionari cinesi hanno propagandato con lo slogan “una strada” ha lo scopo essenziale di richiamare tutti i paesi dell’Asia centrale nel campo gravitazionale della Cina, che avrebbe fornito a Pechino una fonte per la sua necessità di risorse naturali, i mercati esteri e la diversificazione economica.
Ma l’approccio cinese per l’integrazione regionale si differenzia nettamente dallo stile russo d’influenza e il regionalismo dell’UE. La Cina invece d’utilizzare i trattati multilaterali per liberalizzare i mercati o offrire profitti generosi, la Cina promette di dare agli altri paesi l’accesso alla sua continua crescita, principalmente attraverso gli investimenti in infrastrutture, come ferrovie, autostrade, porti, gasdotti, agevolazioni doganali e così via. Pechino si sta allestendo come un fulcro indipendente del commercio mondiale, che opera attraverso una serie di sovrapposizioni di legami bilaterali. Allo stato attuale, la Cina può relegare i suoi partner ad una zona periferica, dove non possono avere processi formali per la risoluzione delle controversie e alcuni modi di resistere alla trazione cinese. Se i paesi occidentali rimangono strettamente incentrati sulla lotta contro la Russia minando l’EEU, la Cina potrebbe emergere come il preminente potere regionale allo stesso modo in cui gli Stati Uniti erano venuti a dominare l’Europa dopo la prima guerra mondiale.
Né l’Europa né gli Stati Uniti possono permettersi di consentire che si materializzi la visione grandiosa di Xi, per cui essi devono consentire alla Russia di competere con la Cina per l’influenza nel suo cortile di casa. Naturalmente, Bruxelles e Washington non devono farsi illusioni del sogno del Cremlino di dividere e indebolire l’Unione europea, ma proprio per questo dovrebbero stabilire formali relazioni con l’UEE piuttosto che ignorarla. Una situazione di stallo prolungata con la Russia può solo mettere l’Europa davanti a ulteriori rischi e permette a Pechino d’intervenire, mentre Bruxelles e Mosca litigano. Questa opzione non è perfetta, ma le altre sono di gran lunga peggiori.

G. Bedris

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La Russia e le informazioni sulla sicurezza internazionale

A Mosca il 16 e il 17 aprile, si è tenuta la quarta conferenza sulla sicurezza internazionale, mentre stanno persistendo i disaccordi tra la Russia e l’Occidente per l’Ucraina. Come di consueto, la conferenza è stata condotta dal ministro della difesa, Sergei Shoigu, dal ministro degli esteri Sergei Lavrov, nonché dal generale e capo di Stato maggiore, Valery Gerasimov e da altri membri della leadership politico-militare russa. Nel contesto sanzionatorio occidentale contro la Russia, l’unico governo ad inviare un alto rappresentante alla conferenza è stata la Grecia. Il tema della manifestazione di quest’anno, che si esibiva poco prima delle celebrazioni del 70 ° anniversario della fine della Grande guerra patriottica (seconda guerra mondiale), è stato quello di collegare la sconfitta del nazismo con i recenti sforzi di Mosca per affrontare le moderne sfide della sicurezza. Il messaggio di fondo per Washington e l’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico (NATO) è stato: il Cremlino capisce che il confronto attuale persisterà e non ha alcuna intenzione di fermarsi.
Conoscendo la fragilità del cessate il fuoco nel sud-est dell’Ucraina, combinata con la profondità della crisi nelle relazioni tra Mosca, Stati Uniti, NATO e Unione europea, non è stato certo sorprendente sentire che la conferenza avesse portato gli alti politici e i vertici militari russi a puntare il dito contro gli avversari. Nelle precedenti manifestazioni veniva esaminata la difesa missilistica, la sicurezza europea oltre che i problemi di stabilità globale e regionale; il simposio del 2014 ad esempio, era centrato sulla necessità di contrastare le minacce delle rivoluzioni colorate. Putin non ha partecipato al convegno, ritenendo più utile e più proficua la sua video telefonata nazionale di 4 ore; ma si è reso presente con un discorso reso pubblico da Nikolai Patrushev, il segretario del Consiglio di sicurezza ed ex capo del Servizio di Sicurezza Federale (FSB). Non sorprende, che Putin abbia collegato la sconfitta della Germania nazista di 70 anni fa, alle sfide e alle minacce che la Russia soffre oggi: “diverse visioni e deviazioni del sistema di sicurezza internazionale e mancanza di rispetto degli affari interni dei paesi con la promozione di rivoluzioni colorate”.
Il discorso consegnato dal ministro della difesa Shoigu, è stato carico di sorprese. Nel paragone storico tra l’Unione Sovietica e la Germania nazista, ha intromesso la necessità odierna di contrastare il fascismo e le altre forme di estremismo; ma, secondo il ministro, la seria minaccia alla stabilità internazionale deriva da una serie di “paesi” che cercano d’imporre la propria volontà su altri “arbitrariamente”, i quali interpretando le “norme fondamentali del diritto internazionale” e utilizzando “doppi standard” interferiscono negli affari interni degli Stati sovrani”. “Prendete ad esempio l’Ucraina – ha significato Shoigu al pubblico militare e accademico di circa 70 paesi – gli Stati Uniti ed i suoi alleati hanno promosso un cambiamento di regime facendo precipitare il paese nella guerra civile”. Per giustificare le azioni russe in Ucraina, Shoigu ha rimembrato agli astanti il bombardamento NATO della Serbia nel 1999, la separazione del Kosovo, l’invasione dell’Iraq nel 2003 e il bombardamento della Libia nel 2011.
“Gli autori di queste tragedie con la promozione delle rivoluzioni colorate, sono stati gli Stati Uniti e la NATO – ha continuato Shoigu. La chiusura dell’intervento del ministro delle difesa, è stata mitigata sostenendo che Mosca fosse disposta a collaborare con i partner stranieri su basi “uguali e indivisibili”. Le esternazioni di Shoigu, sono state applaudite e rinforzate sia da Gerasimov che Lavrov, i quali hanno integrato gli approfondimenti con le preoccupazioni russe per la NATO per l’aumento delle esercitazioni, per la creazione di una forza di reazione rapida e per le installazioni di basi in Europa orientale e nei paesi baltici. Gerasimov ha sottolineato che le recenti misure della NATO non venissero considerate da Mosca come “difensive”, ma che fossero parte di un disegno americano per “il dominio globale”.
Il vice ministro della difesa Anatoly Antonov, è stato così preso dall’evento che ha continuato a descrivere le benevole azioni russe nei riguardi della NATO anche alla fine dell’incontro, sostenendo che Mosca dovesse sospendere la partecipazione alle forze convenzionali in Europa (CFE).
Ma il colpo più eclatante di PR è stata la partecipazione del ministro della difesa greco, Panos Kammenos. “Grecia e Russia sono due paesi con legami storici e religiosi, nel nostro incontro abbiamo riaffermato i rapporti di amicizia dei due paesi – ha sostenuto Kammenos.
Il ministro greco ha approfittato dell’avvenimento per sottolineare il disappunto greco per le sanzioni occidentali, impegnandosi ad operare in seno all’UE affinché fossero tolte. Naturalmente, il recente cambio di governo di Atene e le loro difficoltà economiche nella zona euro, sono fattori che chiaramente influenzeranno la ritrovata amicizia greca con la Russia; ma, il Cremlino, senza dubbio vede questo come una chiara prova di mancanza di unità in Europa.
La conferenza sulla sicurezza internazionale di Mosca è una parte integrante degli strumenti informativi della guerra russa; quest’anno il convegno ha mandato segnali inequivocabili: il Cremlino considera gli Stati Uniti e la NATO come le maggiori minacce alla sicurezza russa, più che il terrorismo internazionale o altre minacce transnazionali. Mosca ha dimostrato la sua ferma volontà a proseguire nel confronto con i governi occidentali oltre l’Ucraina. Il tono della conferenza è stato marcatamente più anti-occidentale che nel 2014, mettendo in evidenza il cupo umore che permea i circoli di potere di Mosca.

G. Bedris

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